Grazia Deledda: Raccolta di opere
Grazia Deledda
Nel deserto
Lettura del testo

Parte Prima.

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Giorni quieti e deliziosi passarono.

I due sposi si amavano senza eccessiva passione, e Lia non si faceva illusioni su Justo, il quale d'altronde si mostrava qual era, un uomo cioè non più giovane, un po' esaurito cerebralmente e fisicamente, ma bonario, calmo, lavoratore: il vero capo di famiglia.

Una cornice di poesia rallegrava la loro modesta luna di miele, e Salvador distraeva Lia dalle sue prime impressioni di sposa, dandole con le sue carezze, le sue moine e le sue monellerie un senso di freschezza, di giocondità e talvolta anche di sorpresa.

Ella vedeva nel bimbo tutto un mondo nuovo: le astuzie, le bugie, e nel medesimo tempo la logica e le pretese morali di Salvador la interessavano quasi quanto i discorsi di Justo. E lo amava come una vera madre, cioè anche fisicamente, e tutte le supreme bellezze di quel piccolo corpo nuovo, lo splendore degli occhi, dei dentini, della pelle purissima, il profumo dell'alito che sapeva di latte e di vainiglia, la grazia del sorriso e del pianto, tutto le dava un senso di gioia e pareva volesse ricompensarla di quanto mancava allo sposo già un poco appassito. Salvador li accompagnava nelle loro passeggiate lungo la spiaggia o sui rialzi erbosi coperti di fiori: e rideva con le onde e il suo grido si confondeva con quello delle allodole: era come uno spirito di gioia che rendeva più bello e più vivo il paesaggio, e rianimava e riallacciava gli sposi quando la noia di quei giorni insolitamente oziosi cominciava a distrarli e a dividerli.

Un giorno, mentre scendevano alla spiaggia, il postino consegnò a Justo una lettera col bollo di Roma, era di Costantina, che dava cattive notizie del padrone. «Dopo la partenza di s-i-g-n-o-r-i-c-c-a egli è molto abbattuto; non parla più e sta sempre a testa bassa. Sarebbe forse bene che s-i-g-n-o-r-i-c-c-a venisse a vederlo; poi potrà tornarsene ad Anzio».

- Devo andare? - domandò Lia inquieta.

- Torneremo tutti assieme.

Lia lesse e rilesse la lettera, diventò pensierosa, ma non parlò più finché non arrivarono agli scogli sotto le grotte di Nerone. Era una sera luminosa; dalle colline arrivava il profumo della nepitella, e il mare d'oro e di viola era così calmo che rifletteva nitidamente le paranze simile a grandi fenicotteri argentei con un'ala in aria e l'altra immersa nell'acqua.

- Egli ha paura di morir solo. - disse Lia, sottovoce, curvando la testa quasi per imitare l'atteggiamento dello zio. - Lo conosco. Avrei rimorso se egli morisse mentre noi siamo assenti. Dev'essere orribile finir la vita sole, abbandonati

- Eppure è il destino di quasi tutti gli egoisti.

- Egli con me non è stato egoista, no, bisogna riconoscerlo! Non ha acconsentito a quanto volevo io? ed io non devo mostrarmi libera sempre che egli avesse bisogno di me… e di fargli un po' di compagnia in questi ultimi giorniDopodopo che egli non ci sarà più, io sarò tutta per voi, Justo; per te, per Salvador… Te lo prometto.

Justo le accarezzò le spalle con un gesto paterno.

- Se vuoi, cara, torniamo stasera stessa.

Ella si calmò e gli strinse la mano.

- Grazie. Mi perdoni, vero? ma, tu lo devi capire, io sono riconoscente allo zio per molte ragioni. Egli può aver dei torti verso di me, ma anch'io ne ho verso di lui… Devo considerare che s'egli non m'avesse chiamata a Roma io non t'avrei conosciuto, Justo! Eppoi io ho sempre in mente che noi lo abbiamo giudicato male. Forse non era egoista, come sembrava: ma la solitudine fa diventar quasi cattivi… io lo so. Ed egli è vissuto sempre solo, e nessuno gli ha voluto bene sul serio. Neppure io ho saputo affezionarmi a lui, neppure io, che avevo bisogno di protezione e di affetto

- Dopo morte, tutte le persone ci sembrano buone! - egli disse per distrarla, col suo accento bonario non privo d'ironia. - Anch'io, quando sarai vedova, ti sembrerò un eroe. Tu dirai: egli era un grand'uomo e non l'ho saputo conoscere! E a Salvador e ai nostri figli dirai: voi non immaginate neppure di qual grande uomo siete figli!

- Lo dirò, sì, se non morrò prima di te!

- Ma figli, ne avremo? Quanti? Dieci?

- Io non lo so! - ella disse, quasi indispettita per l'accento di lui. - Per adesso mi basta Salvador.

Egli continuava a batterle la mano sulla spalla, e dopo un momento di silenzio riprese a scherzare:

- Salvador, Salvador! Si direbbe che tu hai sposato lui, non me, o che mi abbi sposato per lui!

- E perché no? tu stesso affermi che la donna è madre ancor prima di essere amante: i nostri primi giocattoli sono le bambole, mentre per voi sono i cannoni e i soldati

- Le bambole vengon poi… - egli ribattè, senza mai prender troppo sul serio le parole di sua moglie. - Vedrai quante ne sceglierà Salvador.

Il bambino giocava sulla spiaggia, piccolo e nero davanti al mare infinito: raccolse una perlina e la portò a Lia.

- Grazie, - ella disse, baciandogli la palma della manina.

Salvador rise per il solletico, e Justo guardò con piacere il bel gruppo della donna curva sul bimbo ridente.

- Lia, gli vorrai bene lo stesso quando avremo altri dieci figli?

- Dieci o dodici, egli sarà sempre il primogenito!

E continuarono così lungo la spiaggia dorata, un po' sorridendo, un po' ricordando lo zio che moriva, tessendo, fra le parole scherzose e pensieri gravi, la tela misteriosa dell'avvenire.

Al ritorno trovarono un telegramma di Costantina. Lo zio Asquer s'era aggravato, ed essi ripartirono la sera stessa.

Benché assistito amorevolmente da loro il vecchio morì scontento come era vissuto, e Lia rimase con la penosa impressione ch'egli se ne fosse andato senza perdonarle i suoi torti.

Prima di lavare e vestire il cadavere, Costantina, che non piangeva e non parlava, ma era livida in viso e di tanto in tanto emetteva un grido funereo come l'aveva appreso dalle prefiche del suo villaggio, consegnò a Lia le chiavi che il padrone teneva sempre con sé. Quando il morto fu portato via e la casa rientrò in ordine, aprirono i cassetti, ma trovarono sole carte inutili e un foglietto nel quale il vecchio dichiarava la sua volontà: mobili, biancheria, gioielli, tutto doveva esser diviso in parti eguali fra Lia e Costantina.

Il plico giallo coi sigilli rossi che Lia aveva intraveduto nel cassetto, il giorno delle sue nozze, era sparito: ella si sentì umiliata per la disposizione testamentaria dello zio, che l'aveva messa al pari della serva, ma non si lamentò, anzi offrì a Costantina di rimanere al suo servizio. La serva era cupa, inquieta, come se la visione della morte l'avesse profondamente colpita; ringraziò s-i-g-n-o-r-i-c-c-a, ma dichiarò che non vedeva l'ora di tornarsene al suo paese e di ricomprare la casupola paterna, e mentre Lia conservava con cura i vestiti, gli anelli, tutte le piccole cose che lo zio, in mancanza di altri affetti, aveva amato gelosamente, ella vendette la sua parte di mobili e di gioielli, pur, come aveva ben detto Justo, piangendo e rievocando la memoria del defunto come quella di un eroe.

- Egli era buono e generoso, sì, sì; era come quelle piante storte e bistorte e dal tronco ruvido, e che danno i più buoni frutti

- Vuoi dire di quelle piante dal cui legno si fanno i buoni mobili? - le disse Justo, canzonandola senza acredine.

Ella lo guardò selvaggia.

- Lei scherza sempre, si sa, come fanno i giornali, che scherzano anche quando succede una disgrazia. Ma il mio padrone era buono. Lei non può sapere tutto quello che lui ha fatto, no, non lo può sapere

- Forse non lo sai neppure tu!

Ella rimase ancora qualche giorno a Roma, decisa, per quante preghiere Lia le rivolgesse, a ritornarsene al paese. La somma ricavata dai mobili era meschina; Lia però pensava che lo zio avesse, prima di morire, consegnato alla serva qualche somma, o che Costantina, il cui contegno era oltremodo strano, se ne fosse impadronita senza permesso.

Partita la ragazza, parve a Lia che si chiudesse tutto un periodo, il più importante, della sua vita: ma un po' per volta i ricordi si velarono, ed ella smise di guardare la porta e le finestre dell'appartamento ove era morto lo zio Asquer, e si lasciò portare dalla corrente della nuova vita.

 

*

 

La nuova vita era dolce, tranquilla: tanto dolce, tanto tranquilla, che qualche volta sembrava quasi monotona, come un bel paesaggio veduto tutti i giorni e sotto una luce sempre mite ed eguale. Spesso Lia usciva dalla cerchia dorata ma ristretta delle sue abitudini, e seguiva Justo a teatro, alle prime grandi rappresentazioni, o in qualche salotto, o in qualche banchetto rumoroso di artisti e di letterati, ma non si eccitava, né si divertiva molto. Ella aveva vissuto troppo a lungo con sé stessa per non dominare le sue fantasticherie, e aveva, come tutti i solitari, una visone della vita che andava al di , al disopra delle apparenze. Justo le diceva che ella doveva scendere da una razza di eremiti; ella infatti vedeva il mondo come dalla cima d'una montagna; ma si spaventava alla sola idea di scendere, di mescolarsi alla folla, e il suo antico sogno di una vita attiva e proficua le appariva sempre più inafferrabile. La sua vita non mutava. Riordinando l'ebbrezza dopo il suo primo colloquio con Justo a Villa Borghese, ne provava quasi vergogna. Che aveva fatto, dopo? Nulla; si lasciava cullare dalla vita; e se Justo e Salvador erano felice, lo dovevano più alla indolenza che alla volontà di lei.

Un giorno le arrivò una lettera della zia Gaina: era la terza, dopo la sua partenza dall'isola; nella prima la donna si meravigliava della resistenza di sua nipote a vivere presso lo zio Asquer; nella seconda dichiarava di non esser contenta del fidanzamento di Lia, che ella avrebbe preferito veder sposa ad un impiegato governativo; adesso le chiedeva come passava la vita, se suo marito guadagnava abbastanza, se aveva bisogno di qualche cosa.

«Se hai bisogno, dimmelo: per il poco che posso aiutarti sono sempre tua zia, quella che ti ha fatto da madre

Quest'offerta umiliò e commosse Lia: le parve di esser ingrata verso la zia Gaina e per ricompensarla in qualche modo promise di andarla a visitare. In settembre, infatti, tornò nell'isola. Aveva preso con sé Salvador, e senza di lui si sarebbe forse annoiata nelle poche settimane che rimase presso la zia.

Lungo il viaggio ricordava la sua scatola legata con la cordicella, la cassettina dell'aranciata, i sogni che aveva portato dall'isola al continenteDolci e semplici anch'essi come l'aranciata, erano stati egualmente derisi e cacciati a muffire in un cantuccio.

Sul villaggio polveroso e sulla brughiera, fino all'orizzonte, gravava il silenzio desolato che ella ben conosceva: le voci umane vi si smarrivano come gridi di uccelli, e Lia provò di nuovo l'impressione del deserto; ma le parve d'esser diventata più alta; le cose eran piccole, davanti a lei, e lo stesso palmizio s'era incurvato, rimpicciolito come un vecchio.

I gridi di Salvador riempirono di vita il luogo triste e morto: appena arrivato andò a molestare le galline, poi si ficcò in mezzo ai cespugli, come una lepre liberatasi da un luogo chiuso, e Lia capì subito che la sua più grande occupazione sarebbe stata quella di corrergli appresso.

La zia Gaina, nera e jeratica, col viso inquadrato dalla banda nera e le mani sotto il grembiale, ritta sulla soglia della casetta guardava quasi con ostilità il bambino e trovava ridicolo che Lia si preoccupasse tanto per un monello simile, suo figliastro per giunta.

- Egli ti darà del filo da torcere, - le disse, raggiungendola sotto il palmizio. - Ah, i figli altrui! Non bisogna mai occuparsene.

- Voi però ve ne siete occupata!

- Era altra cosa. Raccontami, adesso

Lia le raccontò ingenuamente tutte le sue avventure dopo l'arrivo a Roma, la storia del suo matrimonio, la morte dello zio: e con sorpresa osservò che al ricordo di questi la zia Gaina, che aveva un gran rispetto dei morti, non solo non brontolava più, ma non trovava nulla a ridire neppure per il generoso lascito alla serva.

- Eh, tu lo avevi abbandonato, e in quello stato, poi! È già molto se egli si è ricordato di te! Egli poi, mi hai detto, era scontento del tuo matrimonio. Ed io, sia lodato la sua memoria, non so dargli torto: non si sposa un uomo con figli, che non ha patrimonio sicuro!

Lia ricordava lo spirito di contraddizione della zia, e non volle discutere: solo domandò:

- E con chi mi sposavo, allora?

- Partiti non te ne sarebbe mancati, rosa mia. Persino qui qualcuno pensava a te.

- Ah, sì, il maestro? È ancora vivo?

- E perché dovrebbe esser morto? Non, è poi tanto vecchio; a quel che posso capire, anche tuo marito non ha vent'anni.

- Li ha passati, certo! - disse Lia, animandosi. - Ma è ancora giovane, forte, vigoroso.

Ella esagerava, per amor proprio, perché veramente Justo era sempre malaticcio e stanco. Del resto la zia non pareva convinta: con le mani sotto il grembiale, rigida e impassibile in apparenza, fissava Salvador che costruiva una casupola di sabbia, e continuava a brontolare:

- Tuo marito quanto guadagna?

- Cinquecento lire.

- All'anno?

- Al mese.

La donna allora parve colpita: cento scudi, al paesello, rappresentavano una grossa rendita annua. Ma poi ricordò che il maestro diceva: «a Roma, per vivere bene, occorrono cento lire al giorno», e nascose la sua meraviglia.

Lia aggiunse:

- Come vedete, non moriamo di fame.

- Di fame non muoiono neppure i mendicanti, consolazione mia. Certo, però, per comprare tutto, dal sale all'olio, ce ne vuole. Le provviste non abbonderanno, in casa tua. Dimmi un poco, ti avanzano molti denari alla fine del mese?

- Non molti, è vero.

- Se voi viveste qui, forse, potreste risparmiar bene; - riprese la zia; ma subito ella stessa capì che per un corrispondente di giornali americani quel soggiorno non era il più indicato, e aggiunse, non senza rancore: - ma qui il paese è troppo meschino, tanto che tuo marito non ha neppure creduto bene di farci l'onore di venire con te…

- Egli ha tanto da fare, zia; verrà un'altra volta.

- Io morrò senza conoscerlo. Bene, non importa; l'essenziale è che viva lui, non che viva io. Ma, dimmi, quando sarà vecchio potrà scrivere lo stesso? Al nostro parroco trema la mano.

- Quando sarà vecchio? - disse Lia, che cominciava ad irritarsi. - Dio ci penserà. Eppoi, non c'è il figlio?

- Quell'uccellino ? Quello vi pianta, appena mette le ali, se pure non farà di peggio.

- Salvador? - chiamò Lia.

- Aspetta: faccio la porta.

- Vieni subito.

- Aspetta, ho detto.

- Vedi, non ti ubbidisce neppure. Egli dirà sempre «aspetta» e non verrà mai.

- Raccontatemi adesso voi le notizie del paese, - disse Lia, tanto per cambiar discorso; e la zia Gaina raccontò: il maestro, dopo il matrimonio di colei che egli amava, era diventato misantropo e beone; leggeva sempre i salmi, come i sacerdoti, ed anzi si diceva che egli volesse farsi prete: Simone Salis aveva vinto la lite e sua moglie s'era messa la dentiera; il parroco aveva fatto testamento a favore della Chiesa.

- Tanto valeva che egli avesse fatto il servo gratis; poiché non intendeva lasciar i suoi guadagni ai nipoti.

Nei giorni seguenti Lia, non sapendo come passare il tempo, andò a far qualche visita: Salvador l'accompagnava e in breve diventò popolare, acquistandosi però cattiva fama perché ovunque entrava frugava ogni cantuccio e in casa di donna Rosalba Borrotzu domandò un fico d'India e in un'altra casa mangiò pane e formaggio assieme coi servi che facevano colazione: egli dunque era un bambino sfacciato; e a Roma non doveva mangiare abbastanza frutta, e probabilmente si nutriva di cibi grossolani.

Dovunque andava, Lia subiva lunghi ed abili interrogatorî sulle sue condizioni finanziarie, e tutti le lasciavano capire la loro compassionevole inquietudine per il suo avvenire: che avrebbe ella fatto se suo marito si ammalava o moriva? Un giornalista, per tutta quella buona gente, era quasi come un g-i-o-r-n-a-l-i-e-r-o, cioè uno che lavora a giornata: persino i loro nomi si assomigliano, ed entrambi mangiano solo quando lavorano! Invano il nipote del parroco, che era corrispondente della «Nuova Sardegna» difendeva i suoi colleghi e diceva che certi giornalisti guadagnano quanto i ministri: donna Rosalia Borrotzu e le altre donne benestanti sorridevano pietosamente e dicevano:

- Uno può guadagnare quanto vuole, se non ha le provviste in casa, venutegli dalle sue terre, non sta mai bene, non mangia mai a sazietà!

 

*

 

Tutti i giorni Lia scriveva a Justo.

«Sono qui, nella cameretta solitaria ove ho passati gli anni desolati della mia inutile fanciullezza. Salvador, dorme, in un lettuccio che la zia Gaina aveva già preparato accanto al mio: il suo sonno è profondo; eppure egli di tanto in tanto si scuote e ride, d'un riso flebile, sereno, che par venga da un mondo remoto ove tutto è gioia. Era ben stanco, e durante la giornata ha fatto quasi impazzire la zia, che tuttavia è venuta poco fa a vederlo, ed ha appeso alla finestra una falce perché i vampiri s'indugino a contarne i denti e così non entrino in casa nostra. Anche in questo momento essa mi avverte di smorzare presto il lume perché non entri la Tentazione. Mio caro Justo, nulla qui è mutato, dunque; mi par di vedere ancora una figurina nera disegnarsi sullo sfondo azzurrognolo della finestruola: la luna nuova le pende sul capo come un diadema, e le stelle scintillano attraverso i suoi capelli. È Lia che sogna guardando il mare lontano. Io sono un'altra e non rimpiango quella mia sorella immobile e triste; però mi sembra che qualche cosa di lei rimanga ancora attorno a me, come appunto rimane il ricordo di una persona morta. Io vorrei completamente dimenticarla, essere un'altra non solo con l'intenzione, ma anche con le opere. Ricordi il nostro primo colloquio a Villa Borghese? Che ho fatto, dopo? Nulla, nulla; ho amato, mi son lasciata amare. È poco, davvero. Io penso con terrore a ciò che sarebbe avvenuto di me se non ti avessi incontrato: sarei dovuta tornar qui, in questa infinita solitudine! Ricordo la lettera che scrissi al povero zio Asquer, e che non ebbi il coraggio di mandargli mai. Quanti bei propositi! E il tempo è passato senza che io me ne ricordassi neppure. E adesso quei bei propositi, rimasti, in questa cameretta, par che si sveglino e saltellino intorno a me e ronzino intorno alla finestruola, come i folletti della notte. Purché anch'essi non si fermino a contare inutilmente i denti della falce!

«Ho ricevuto la tua carissima e ti ringrazio delle tue tenere parole; anche il mio cuore è presso di te: provo rimorso pensando che tu lavori per noi tutti, mentre io passo qui oziosamente i giorni. Sento un bisogno prepotente di far qualche cosa anch'io, e questo bisogno mi rende talvolta inquieta e triste, come se dentro di me fermenti un male a cui sia necessario uno sfogo esterno. Capisco adesso come certi individui intelligenti, bisognosi di attività, costretti all'ozio dalla mancanza di iniziativa, dall'ambiente, dalle circostanze della vita, compiano il male: è la loro energia rientrata, depressa, che scoppia come un ascesso maligno. Che fare, pertanto? Io penso e ripenso, e bisognerà che mi decida: pensaci tu, carissimo; bisogna dar lavoro a tua moglie.

«Qui la vita è sempre la stessa. Io continuo a ricever visite, e soprattutto a farne. Io e Salvador siamo diventati di moda, e tutte le famiglie fanno a gara per riceverci: i paesani e le paesane ripetono e commentano ogni parola di Salvador, ed egli ha già imparato a cavalcare ed a guidare il carro tirato dai buoi! Ogni momento riceviamo regali: frutta, formaggio, vino, galline ornate di nastri e con anellini di scarlatto alle zampe. I paesani si riempiono le tasche di arance e di pere, come fanno per la Pasqua, e aspettano che passi Salvador per regalargliele.

«I presenti di certe famiglie hanno però un significato che dovrebbe umiliarci: molti qui credono che la vita a Roma sia così difficile da non permettere a persone come noi di saziarsi di frutta e d'altre cose prelibate; essi quindi ci mandano l'uva moscata, le trote, le pernici, i dolci di mandorle, affinché possiamo, intanto che siamo qui, godercene fino alla sazietà!

«Anche il mio ex-pretendente ricco mi ha mandato un cestino d'uva. L'altro giorno andai a visitare sua madre, che mi ricevette in una camera terrena adorna di arche antiche scolpite, umida e tetra come una cappella mortuaria; le galline entravano ed uscivano liberamente, e Salvador, avvertito da me, si contentava di guardarle e di sorridere, mentre negli occhi gli splendeva il desiderio di molestarle. Quella che avrebbe dovuto esser mia suocera mi fissava con curiosità, domandandomi i prezzi dei viveri a Roma; il mio antico pretendente stava nel cortile e non osò presentarsi finché non mandai Salvador a chiamarlo. Allora entrò, mi salutò goffamente, ed io mi accorsi che tremava. È completamente abbruttito dal vino, ma conserva ancora qualche sentimento gentile: prese con sé il bimbo e gli diede un garofano, e oggi gli mandò un carrettino sardo, coi buoi scolpiti nella ferula, lavorato da lui. Chi vuol conservarsi disinvolto e apparire un uomo civile ed evoluto è l'altro ex-pretendente, il signor maestro, che venne a visitarmi alle cinque precise e se ne andò dopo un quarto d'ora. Abbiamo parlato di politica e di religione! È l'unico che non mi abbia mandato un regalo di frutta o di uova, e che non mi abbia rivolto domande indiscrete sul conto tuo: anzi non mi ha chiesto nulla, come se tu non esistessi affatto.

 

«La zia Gaina entra ancora in camera, guarda Salvador, e adesso depone su questo foglietto due zampe di zanzara.

«- Viene la Tentazione, rosa mia; e anche le zanzare, vedi, pungono Sarbadoreddu.

«Questa religione mi convince a smorzare il lume: buona notte, dunque, mio carissimo, e un bacio della tua Lia.

 

«… Mio buono, mio amatissimo Justo! Ho passato una notte agitata. La Tentazione? I vampiri? Le zanzare? Mille ronzii misteriosi riempivano il chiaroscuro della notte, e vagavano nuvole e brillavano raggi attorno al mio letto. Adesso capisco il mio malessere dei giorni scorsi, la mia inquietudine, la mia nervosità. Sì, qualche cosa era dentro di me, è dentro di me, - una c-o-s-a grande, divina. Salvador avrà un fratellino».

 


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