Grazia Deledda: Raccolta di opere
Grazia Deledda
La via del male
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L'indomani, verso le dieci del mattino, una ventina di donne, sedute in circolo nella cucina dei Noina, piangevano e bisbigliavano, aspettando che i sacerdoti venissero a portar via la salma di Francesco. La sventura ed il lutto erano piombati come fulmini sulla casa dei felici; e le cose tutte, in quell'ambiente già così tranquillo e ordinato, pareva ne restassero sbalordite. Il disordine regnava in tutte le camere; levate le tende, velati gli specchi; chiusi gli scurini delle finestre, i pavimenti polverosi. Nella camera degli sposi, intorno alla cassa mortuaria foderata di velluto nero e di trine d'oro, ardevano otto lunghi ceri: nella camera attigua, dove s'era dato il pranzo nuziale, zio Nicola, col viso terreo e gli occhi cerchiati, riceveva le condoglianze dei parenti e degli amici. La penombra giallastra della camera chiusa rendeva più tristi i volti bruni, tragicamente pensierosi, di quegli uomini fieri che non mentivano il loro dolore.

Tutti avevano amato Francesco; la sua morte pareva a tutti un sogno spaventoso. Qualcuno piangeva silenziosamente, cercando di nascondere le lagrime, che non stanno bene negli occhi di un uomo coraggioso; nessuno osava parlare forte, e i gridi e i singulti delle donne riunite in cucina giungevano affievoliti, come da un luogo remoto. E fuori il sole di maggio splendeva, avvolgendo con la sua gioia la casa tragica, dove tutti soffrivano come dentro un luogo di pena.

Nella cucina si svolgeva la ria, l'antica scena funebre, resa più caratteristica dal chiaroscuro dell'ambiente. Il focolare era spento, la finestra chiusa; solo dalla porta entrava un filo di luce, e un sottile raggio di sole si ostinava a penetrare per una fessura del finestrino, descrivendo una striscia di pulviscolo nel vuoto e andando a finire in un occhio d'oro sulla parete opposta.

In fondo alla cucina, nell'angolo più buio, stava la giovine vedova vestita di nero, con un costume preso a prestito da una vicina: era pallidissima, aveva gli occhi gonfi; sembrava invecchiata di vent'anni, stordita da un male più fisico che morale. Zia Luisa e le più strette parenti del morto la circondavano; le altre donne sedevano per terra, con le gambe incrociate, tutte avvolte nelle loro pesanti tuniche e il viso seminascosto dalle bende nere e gialle di lutto.

Ogni tanto la porta s'apriva. La viva luce del mattino inondava la cucina, illuminava le donne piangenti, alcune delle quali guardavano fuori con occhi foschi, quasi meravigliate che il sole splendesse ancora e il cielo fosse ancora puro; entrava qualche altra parente che aveva cura di richiudere subito la porta e tutto ritornava più triste e grigio di prima.

La nuova arrivata attraversava in punta di piedi la cucina, e chinandosi sulla vedova le diceva quasi in tono di comando:

«Ma! Abbi pazienza! Son cose del mondo, e Dio solo è padrone della nostra vita. Abbi pazienza, Maria!».

«Dio sì, non gli uomini! Ah, me lo hanno ucciso come un agnello», rispondeva Maria; e piangeva, e ricominciava a raccontare alla nuova venuta, come già l'aveva dovuta raccontare alle altre donne, la storia della sua sventura.

Oramai tutte sapevano questa storia, e la vedova la raccontava sempre con le stesse parole, come una spaventosa lezione; tuttavia una specie d'accompagnamento di singulti e un triste mormorio si levava ogni volta che Maria parlava. Nell'angolo dietro la porta due donne commentavano a bassa voce il racconto della giovine vedova.

«Com'è stata coraggiosa! Io sarei morta mille volte se mi fossi trovata in simili frangenti

«Sì, ma guardala bene: sembra una vecchia di cento anni; ella ha resistito come la quercia alla bufera, ma ora ne risente...»

«E quei pastori che l'hanno lasciata sola, , nella capanna di Antonio Pera! Era cosa da farsi?»

«Ma credevano che dormisse: zio Andria quando non vide tornare nessuno, si allontanò un momento, esplorando anche lui i dintorni. Dice che gli parve di sentire un grido; quando ritornò verso la capanna Maria era già uscita...»

«Lo so, lo so», disse l'altra; «ma egli non doveva lasciarla sola un momento. Così ella non avrebbe veduto il cadavere...»

«Oh, l'avrebbe veduto egualmente: non è donna da lasciarsi ingannare, Maria! E che coraggio, dopo! Volle aspettare le Autorità, e disse loro tutto ciò che sapeva

«Questa mattina ho sentito dire che Turulia è stato arrestato mentre fuggiva verso le foreste di Orgosolo, voleva unirsi con altri banditi

«No, non è vero; non è stato ancora raggiunto, purtroppo...»

«Ah, assassino, immondezza...»

«Ma non v'è alcun dubbio?», insinuò l'altra, mentre Maria raccontava i sospetti che Francesco nutriva contro il servo.

«Eh, no, sorella cara! Ci sono i pastori che li hanno sentiti questionare. Vedendosi scoperto, il servo ha ucciso Francesco. Le ferite sono del suo coltello, che fu rinvenuto in fondo al sentiero...»

«Zesús, Zesús28», sospirò l'altra, e si asciugò gli occhi con la

manica della camicia.

In quel momento s'udì il canto funebre dei sacerdoti che venivano per portar via la salma; una campana squillava, lenta e lugubre, in lontananza.

Nella cucina le donne si misero a piangere con frenesia: due parenti del morto cominciarono sos attitidos29. Cantavano una per volta, e ad ogni versetto le donne rispondevano con un coro di gemiti, singulti e grida.

Maria diventò livida: le sue labbra ed i suoi occhi si chiusero; e quando i sacerdoti si fermarono salmodiando nella via, e la bara fu portata giù, ella si piegò e cadde come morta sulle ginocchia di zia Luisa.

I gemiti e le grida raddoppiarono; molte donne si avvicinarono alla giovine vedova svenuta, altre uscirono nel cortile. Solo zia Luisa conservò il suo contegno solenne; sputò lievemente sul viso cadaverico della figlia e le slacciò il corsetto.

La vedova rinvenne subito, si sollevò, rigida, ma accorgendosi che il suo sposo veniva portato via per sempre, cominciò a mandare acute grida.

Nel cortile Sabina, col viso bianchissimo circondato da una benda nera, distribuiva i ceri alle persone che volevano seguire il funerale. Altre donne l'aiutavano in questa pietosa faccenda. Ben presto i sacerdoti, sui cui paludamenti neri le trine d'oro scintillavano al sole, s'allontanarono salmodiando; la bara, portata da confratelli vestiti di bianco, sparve all'angolo della via; il portone fu chiuso. Sulla casa tragica risuonante di grida, sul cortile, sulla scala fiorita, il sole giocondo brillava sempre più caldo, e le rondini si posavano sul muro o s'inseguivano stridendo. Sabina rientrò in cucina e s'accoccolò dietro l'uscio. Non piangeva, non si guardava attorno: un pensiero fisso e tetro le offuscava gli occhi già così dolci.

Nonostante la perizia dei medici, l'affermazione dei testimoni, le conclusioni della giustizia illuminata, ella sola scrutava, col suo mite sguardo, il mistero della tragedia, e sentiva la triste verità.

Colta da un altro svenimento, Maria fu portata nella sua camera e stesa sul suo letto. In cucina allora le donne ricomposero la ria e proseguirono i canti funebri, abbandonandosi, ora che la vedova non era più , a tutta la foga della loro inspirazione poetica.

Le prefiche erano due: la balia e una zia del morto; la prima era un piccola vecchia vestita di nero, con due grandi occhi azzurri in un visino bianco e molle; l'altra vestiva con lusso, e la cintura d'argento sul bustino di velluto verde si sprofondava nella sua vita grassa.

Questa prefica aveva una bella voce sonora, e godeva fama pei suoi attitidos; finché Maria aveva assistito alla ria le due donne s'erano limitate a ricordare le virtù del morto, le sue nozze recenti, l'infanzia lontana. Ora invece descrivevano la scena orribile della sua morte, la desolazione della vedova; invocavano vendetta e imprecavano contro l'assassino.

«Nostra Signora del Monte», cantava la balia che sembrava molto commossa e si asciugava ogni tanto gli occhi con la manica della camicia, «tu che sei misericordiosa coi buoni, sii implacabile coi malvagi. Punisci in questa vita e nell'altra colui che ha assassinato l'uomo più mite della terra, il mio figlio di latte, il garofano mio.»

«Francesco Rosana», diceva la zia del morto, «oh, tu che eri il più bel sogno di tutte le fanciulle nuoresi, tu che eri il fiore dei giovani, quando baldo e fiero sulla tua cavalla bianca attraversavi le tue tancas e facevi mille progetti per l'avvenire, pensavi che tu saresti morto in modo così orribile? Ma chi di ferro ferisce di ferro perisce. Maledetto colui che ti ha colpito; maledetto

«Maledetto: quante gocce di latte ho dato al morto, tante ferite ti trapassino il cuore, assassino! Ah, figlio mio di latte, tu dunque non rivedrai più la tua sposa; tu non cullerai i tuoi figli, come io, che non ero tua madre, ti ho cullato...»

«Oh, sorte tremenda; i nipoti ricorderanno la morte di Francesco Rosana, imprecheranno contro l'assassino. Non vedeste? Ieri il sole era pallido e le nubi coprivano i monti, perché anche il cielo piangeva la morte di questo giovine amato e generoso.

«Eri giusto e fedele, eri l'orgoglio della tua stirpe, l'appoggio e la stella dei tuoi parenti. Ora la tua sposa piangerà, vestita di nero come la Madonna dei Sette dolori, ed i tuoi parenti cammineranno a testa china per tutto il resto della loro vita

«Ma perché sei tu andato nel tuo ovile, conducendovi la tua sposa che doveva poi ritornare sola alla sua casa desolata

«Invano ora le tue terre ed i tuoi armenti e i tuoi pascoli ti attenderanno; la messe ingiallirà, ma il padrone non benedirà più col suo sguardo l'abbondanza della raccolta

«Eri onesto e giusto, bianco come l'agnello appena nato; perciò ti hanno sgozzato, ed il tuo sangue colorì i rovi dello Spirito Santo

«Persino i banditi s'inchinavano davanti a te; eri onorato da tutti, o gioiello d'oro, bellissima viola, che lasciasti tutti i cuori spezzati...»

«Noi ci strappiamo i capelli, chiedendo vendetta al cielo. Sia maledetto il latte che nutrì il tuo assassino; spuntino rovi sul suo cammino; che la giustizia lo afferri e ne faccia strazio

«Con sette colpi di pugnale bucarono il tuo cuore come si buca un pezzo di sughero; settanta anni ed altri sette duri la pena di colui che ti ha ucciso a tradimento

«Dio è buono; egli chiamò a sé il padre tuo e la madre tua prima di questo giorno nefasto; ma chi conforterà la tua sposa, o nipote mio bello, o fiore mio, o nipote mio, che non rivedrò mai più?»

 

Verso mezzogiorno la gente cominciò ad andarsene; anche Sabina che aveva ottenuto mezza giornata di permesso dalla sua padrona, dovette lasciare la cugina e gli zii. Rimasero presso la vedova alcuni parenti del morto.

Il fuoco non fu quel giorno acceso in casa Noina e nessuno pensò a preparare il pranzo: ma verso mezzogiorno tre donne portarono tre grandi cestini, entro i quali i parenti e gli amici dei Noina mandavano il desinare bell'e pronto. Zia Luisa ringraziò, solenne e maestosa nel suo dolore; tutti finsero di non toccar cibo, ma i cestini furono egualmente vuotati.

Maria aveva la febbre; al coraggio ed al sangue freddo, che l'avevano sostenuta nei giorni prima, seguiva in lei un accasciamento quasi morboso. Le pareva d'essere ancora nella tanca, accoccolata entro la capanna dei pastori amici; aspettava Francesco, ma sapeva ch'egli non sarebbe ritornato mai più.

Visioni terribili la tormentavano; vedeva Francesco assalito dall'assassino; il coltello si affondava nelle carni dell'infelice, il suo sangue sprizzava lontano...

Un buio misterioso e denso come un velo nero avvolgeva la figura dell'assassino. Chi era? Il servo o Pietro Benu? Questo mistero era il maggior tormento della vedova.

Poi ella si scuoteva, si guardava attorno, cercava di rientrare nella realtà. Ora le pareva di aver amato Francesco di vero amore; ricordava i suoi occhi, i suoi baci, le sue carezze.

Come egli era stato buono!

Sì, avevano ragione le prefiche; egli era stato buono come un agnello, e come un agnello era stato sgozzato.

Da chi? Da chi?

La figura misteriosa dell'omicida vagava nel buio; a momenti però i ricordi della vedova si schiarivano; ella rivedeva la figura di Pietro Benu, in una chiara sera di maggio, nello sfondo del sentiero che attraversava le tancas... Egli aveva in mano un coltello e procedeva cauto come un bandito...

Nei suoi sogni tormentosi ella faceva ipotesi spaventevoli: Pietro aveva ucciso il servo, poi, col pugnale di questo, aveva compiuto la sua vendetta... Egli aveva dei complici; forse i banditi, che non mancavano in quei dintorni; forse gli stessi pastori che si fingevano amici...

Un delirio di sospetti, di dubbi, di pensieri atroci, di rimorso e di terrore, la tormentò per giorni e giorni. Ma le sue labbra rimasero chiuse; ella non accusò nessuno, e non imprecò contro il servo scomparso. La fama della sua bontà, del suo coraggio, del suo dolore rassegnato, la cinse di un'aureola poetica.

Per tre giorni una lunga processione di gente sfilò davanti alla giovine vedova. Tutti le ripetevano:

«Abbi pazienza, fatti coraggio», ed ella finì col convincersi che bisognava aver pazienza e farsi coraggio.

Poi tutto ritornò calmo intorno a lei: il focolare venne riacceso, zio Nicola, serio e triste come un vecchio fauno annoiato, riprese le sue gite, le sue visite alle bettole, i suoi brontolii, trascinando la sua gamba malata e annusando la sua tabacchiera di corno.

Le donne ripresero le loro faccende: comprarono bende e fazzoletti neri per tutte le parenti povere che volevano portare il lutto per Francesco; distribuirono copiose elemosine in suffragio dell'anima dell'assassinato. E attesero la luna nuova per tingere di nero, con polveri e scorza di ontano, le vesti di Maria. Durante l'interlunio la tintura non riesce bene!

Le finestre ed il portone rimasero lungo tempo chiusi.

 

 





28 «Gesù



29 Canti funebri improvvisati.



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