Grazia Deledda: Raccolta di opere
Grazia Deledda
La via del male
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Una sera, otto o nove giorni dopo i funerali di Francesco, mentre zia Luisa e Maria stavano in cucina aspettando che zio Nicola rientrasse, qualcuno picchiò al portone.

Fu zia Luisa che uscì nel cortile per aprire.

Poco dopo rientrò seguita da Pietro Benu.

«Ave Maria», egli salutò con voce ferma, avanzandosi.

Un vivo rossore colorì il viso pallido di Maria: Pietro prese uno sgabello, sedette e la guardò fisso.

«Perdonatemi», disse con voce sommessa, ma calma. «Non venni prima perché ero troppo lontano. Viaggiavo; ero assente da oltre quindici giorni. Solo oggi, al ritorno, seppi della disgrazia; ne rimasi stordito. Ma come, come accadde

Maria sollevò gli occhi, li fissò negli occhi di Pietro. Una freccia non avrebbe ferito come feriva lo sguardo di lei, cupo e profondo; ma il giovine non si turbò.

Stavano seduti entrambi nel medesimo posto ove s'erano scambiati tanti baci, chiusi dalla medesima cerchia ove s'era svolto il loro romanzo di passione; qualche cosa del passato gravava nell'aria: la fiamma del focolare, che strideva come cosa viva, e tutti gli oggetti intorno, fedeli testimoni, ricordavano e ripetevano ai due antichi innamorati ciò che era accaduto...

«È mai possibile ch'egli mentisca così?», si domandava Maria. «Qui, qui, dov'egli ha giurato di non farmi mai male?...»

«Sì», ella ricominciò a raccontare, ripetendo la triste lezione, della quale oramai non cambiava più una parola, «sì, me lo hanno sgozzato come un agnello! La sera del ventidue maggio egli uscì per recarsi all'ovile vicino.»

Mentre raccontava, non cessava di fissare lo sguardo su Pietro.

Anche lui la guardava, ma i suoi occhi erano freddi e indifferenti, e Maria sentiva in cuore un grande sollievo.

Pensava:

«Si, egli non mi ama più; mi ha da lungo tempo dimenticata. Il mio dubbio è stato un delirio».

Pietro era mutato anche fisicamente; sembrava più alto, più vecchio; scarno, coi capelli irti e gli occhi freddi e indifferenti: il suo viso abbronzato era quasi duro, aveva una espressione che Maria non conosceva ancora.

Ma a misura che ella raccontava lentamente, con voce bassa ancora un po' rauca per il lungo pianto, e rievocava con particolari suggestivi la terribile scena della scoperta del cadavere di Francesco, il viso di Pietro pareva rammollirsi, la bocca esprimeva una pietà quasi infantile, un desiderio di pianto, e gli occhi vitrei s'accendevano come al riflesso del fuoco.

Maria lo guardava e sempre più si convinceva dell'innocenza di lui.

Egli era sempre il fanciullo d'una volta, apparentemente fiero, buono e pietoso in fondo. La sua fisionomia, fosse quella d'un uomo indifferente o quella d'un amico pietoso, non era la fisionomia d'un colpevole. Ella aveva sognato.

Dopo quella sera egli ritornò spesso dai suoi ex-padroni.

Un giorno anzi acquistò da Maria, che aveva ereditato solo una parte del patrimonio di Francesco, alcuni tori e un paio di buoi. Per combinare l'affare egli venne in compagnia di un giovine istranzu, Zuanne Antine, che presentò come suo socio.

A proposito di vacche l'Antine ricordò il servo Turulia. In quel tempo tutti credevano che il presunto assassino di Francesco si fosse rifugiato con altri banditi, sulle montagne della Corsica.

«Una volta ho acquistato una vacca, da questo Turulia. Me la vendette a buon prezzo, tanto ch'io dubitai fosse rubata; ma egli mi presentò due testimoni», disse l'Antine.

«Chi erano?», domandò Maria.

Egli nominò due giovani nuoresi; e realmente più tardi il fatto da lui narrato risultò vero, e tutti i proprietari ai quali erano stati rubati tori e vacche ne incolparono il servo di Francesco Rosana e i suoi amici latitanti.

Maria era convinta oramai che il vero assassino di Francesco era Turulia; tuttavia qualche volta si sentiva assalita da scrupoli, da sospetti strani. Come fare per liberarsene? Pietro continuava le sue visite, offriva i suoi servigi a zio Nicola ed alla giovine vedova. Anche con zia Luisa andavano d'accordo.

Un giorno ella gli domandò:

«Ebbene, come vanno i tuoi affari? Dicono che tu sei bene avviato».

«E che volete?», egli rispose, scrollando la testa col suo solito gesto sdegnoso. «Il bisogno, dicono, fa correre il vecchio. Tanto più dovrebbe far correre il giovine! Ho avuto la fortuna d'incontrare un uomo che mi vuol bene, e che ha voluto in me non un servo, ma un socio. Cammino per conto suo ed un pochino anche per conto mio. Vado qua e , per tutti i paesi del circondario, tanto per guadagnare la vita...»

«Come stanno le tue zie

«Sempre peggio: sono tanto vecchie; c'è zia Tonia che va consumandosi come una candela», egli rispose, fingendo una grande tristezza, e scuotendo la testa come per togliersi una mosca dal naso. «Ma... siamo nati per morire

«Sì, siamo nati per morire», convenne zia Luisa.

Tuttavia riprese a parlare d'affari:

«Senti, Pietro; tu che ora giri, sapresti dirmi dove si potrebbe collocare qualche migliaio di lire, con garanzie valide e discreti interessi?».

«Lo dirò al mio socio: potremmo prenderli noi, i vostri denari», disse Pietro, quasi con degnazione. «Garanzie? Tutte quelle che vorrete. Oramai abbiamo del credito

«E quando ti ammoglierai?», chiese poi zia Luisa.

«Oh, c'è tempo! Quando sarò ricco!», rispose scherzando il giovine; ed i suoi occhi corsero a Maria.

Ella ascoltava e taceva, coi gomiti sulle ginocchia e il viso fra le mani. Ogni parola di Pietro la colpiva.

«Chi può sapere?», pensava. «Sì, egli può diventar ricco: non è forse diventato ricco anche mio padre? Ah, forse era meglio che io l'avessi atteso: Francesco non sarebbe forse morto, io non avrei sofferto tanto... Ora tutto è finito...»

In quel momento la voce fresca e quasi infantile di Sabina risuonò nel cortile.

«Zia Luisa? Ci siete?»

«Siamo qui, vieni.»

Appena vide Pietro, la ragazza si turbò alquanto; ma la sua voce risuonò ancora più alta e allegra, d'un'allegria forzata:

«Sei qui, Pietro Benu? Come stai?... Zia Luisa, venite, datemi un litro d'olio. Presto, la padrona m'aspetta, e poi devo andare a casa mia, dove m'attende il fidanzato».

«Tu scherzi?», chiese zia Luisa, alzandosi pesantemente.

«In fede mia, no: vedrete fra pochi giorni se scherzo o no... Andiamo, fate presto», ripeté Sabina, battendo lievemente sulla porta la bottiglia. «Addio, ragazzi...»

Pietro e Maria rimasero soli, e istintivamente si guardarono; ma subito Maria chinò la testa.

«Pietro», disse con voce tremante, «devo chiederti un piacere. Da tanto tempo desideravo parlarti a quattr'occhi. Senti. Sono convinta che la morte del beato sia stata più che altro una disgrazia: l'impeto brutale di Turulia mi ha reso vedova. Ma vedi, la notte non dormo, colta da sogni spaventosi: sarà un delirio, ma non posso liberarmene. Un pensiero terribile mi tormenta. Senti, Pietro: per l'anima dei tuoi

morti, giurami qui, su questa santa croce, che tu non hai consigliato, né fatto, né voluto l'uccisione di Francesco...»

Sollevò la mano, tenendo sulla palma un rosario nero; ma non osò guardare Pietro.

Ma poiché egli taceva, dopo un momento di ansia ella sollevò gli occhi e lo vide così pallido che istintivamente ritirò la mano.

Pietro fu pronto ad afferrargliela e gliela strinse quasi ferocemente; ella sentì i grani del rosario premerle la palma, conficcandosi fra la sua e la mano del giovine.

«Maria», egli disse a denti stretti, con voce anelante, «non ti credevo così cattiva... No, non a questo punto... No...»

«Appunto perché sono cattiva, ho paura...»

Egli si tolse rapidamente la berretta, fissò gli occhi ardenti negli occhi di lei.

«Ti giuro... ti giuro su quanto c'è di più sacro... Io non so nulla. Dimmi che mi credi: dimmi...»

«Sì, ti credo», ella rispose convinta.

E sospirò: le parve d'essersi liberata da un incubo.

Pietro le lasciò libera la mano, si rimise la berretta e proseguì:

«Perché questo pensiero? Se avessi voluto fargli del male avrei potuto farglielo prima. Dopo a che mi serviva? Tanto tu non sarai mai più mia: io per te sarò sempre un servo...».

«Taci, taci...», ella supplicò. «Non parliamone più.»

Egli s'alzò e la guardò ancora, così ardentemente che ella dovette di nuovo abbassare gli occhi.

«Bisogna che me ne vada; altrimenti tua madre potrebbe accorgersi del mio turbamento... Vedi come tremo... come un bamboccio... Tremo, perché il dolore che tu ora mi hai dato supera tutti gli altri... Ah, no, non credevo... Ed io, io che venivo qui, solo per vederti... perché questo è ancora l'ultimo conforto che mi resta...»

«Taci, taci», ella ripeté. «Non tormentarmi. Ti credo, ho detto; ora sono tranquilla. Sì, vattene

«Sì, me ne vado. Se vuoi non ritorno più... Dimmelo, dimmelo...»

Ella non rispose, immobile nella posizione di prima. Egli raggiunse Sabina che attraversava la viuzza, ma la salutò appena e passò oltre. La fanciulla lo seguì con lo sguardo e scosse la testa.

 

E l'indomani mattina Sabina si recò ad un appuntamento che il suo pretendente le aveva chiesto. Diceva a se stessa:

«È tempo di pensare ai fatti miei; Giuseppe è un buon giovine, e qualunque ragazza della mia condizione si chiamerebbe fortunata di sposarlo. Che altre speranze ho io?».

Il dubbio che Pietro fosse complice nell'assassinio di Francesco la tormentava ancora; in tutti i casi Pietro non pensava più a lei; perché dunque ostinarsi in questa vana passione? Ma per quanto ella fosse mite e ragionevole, un segreto desiderio di vendetta la spingeva. Il suo pretendente era fratello di Antonio Pera, il Pastore il cui ovile era vicino all'ovile Rosana. Qualche parola sfuggita a Giuseppe a proposito di Pietro Benu, aveva

destato la curiosità di Sabina, e aumentato i suoi dubbi.

«Maria e Pietro non si sposeranno mai; no, non si sposeranno...», ella pensava con triste soddisfazione.

Era appena l'alba, un'alba nitida e fredda di dicembre. Sabina, con l'anfora sul capo, si diresse alla fontana di Gurgurigài, ma giunta davanti alla chiesetta della Solitudine si fermò. Era il luogo dell'appuntamento. Giuseppe non era ancora giunto, ed ella, alquanto vergognosa, pensò:

«Che dirà? Che ho avuto fretta? Ebbene, pensi quel che vuole, tanto sarà mio marito. Eccolo!».

Giuseppe Pera s'avanzava sul suo cavallino rosso. Appena vide Sabina balzò di sella, legò il cavallo e corse sorridendo verso la fanciulla.

«Non è più tanto giovine, ma ha l'aspetto d'uomo bonaccione: ha bei denti e begli occhi», pensò Sabina; e anche lei sorrise.

«Eccomi», disse gentile, ma non tenera; «che vuoi da me?»

«Che voglio? Lo sai! Sai che devo partire. Ho finito di seminare il grano, e vado a lavorare in una foresta; starò lontano due mesi. Sabina, non mi dici niente?...»

Egli la guardava, ed i suoi occhi esprimevano un'adorazione profonda.

Sabina abbassò gli occhi: era davvero graziosa, col viso arrossato dall'aria fredda, con l'anfora sulla testa e la tunica avvolta intorno alla persona snella.

«Che vuoi che ti dica? Non ho già promesso di... volerti bene

«Non basta, Sabina. Bisogna che tu prometta di essere mia moglie

«Ebbene, te lo prometto...»

«Sabina, senti. Ciò non mi basta ancora. Bisogna che tu me lo prometta davanti all'altare: ecco perché ti ho dato appuntamento qui: mi son fatto dare la chiave della chiesa. Eccola...»

Sabina si scolorì lievemente in viso; mille pensieri le attraversarono in un attimo la mente. La cerimonia proposta da Giuseppe è, per il popolino nuorese, valida quasi quanto il matrimonio: orribili sventure castigano lo spergiuro.

«Lasciami pensare un momento», ella disse, passandosi una mano sulla fronte. «Va ed apri la chiesa, intanto...»

«Ah, tu dunque acconsenti?...»

«Va, ti dico

Egli andò verso la porta della chiesetta: Sabina depose l'anfora per terra e guardò se si vedeva gente nella strada. Nessuno; solo il cavallino rosso, immobile e paziente, aspettava il suo padrone. L'aurora disegnava già i suoi archi rosei dietro la chiesetta solitaria.

La fanciulla raggiunse il fidanzato e con lui entrò nella povera chiesetta grigia. Giuseppe si levò la berretta, se la gettò sull'omero, si fece il segno della croce.

«Giuseppe», disse Sabina, fermandosi in mezzo alla chiesa, «aspetta... Ho da dirti una cosa. Io adesso giurerò; sarò d'ora in poi come tua moglie; ma tu devi dirmi una cosa...»

«Chiedi pure

«Tu devi dirmi, perché tu lo sai, chi ha ammazzato Francesco Rosana

«Io?», egli esclamò, balzando indietro come spaventato. «Tu vaneggi...»

«No, non vaneggio. Vedi, se tu non avessi saputo qualche cosa, avresti subito pronunciato il nome di Turulia...»

«Appunto, è lui...»

«No, non è lui», disse Sabina, scuotendo la testa. «E tu e tuo fratello e forse altri ancora lo sapete. Ed io pure lo so...»

«Taci, taci, non parlare così.»

«No, lo dico solo a te. Anche a me, dopo tutto, non importa nulla e non voglio, come non vuoi tu, come non vuole tuo fratello, come non vogliono gli altri, aver delle seccature e crearmi degli odi. S'arrangi la giustizia; se essa non trovò gli assassini, tanto meglio per questi... Nel mondo c'è posto per tutti. Però...»

«Però?...»

«Però... dimmi... Ora non insisto; ma se ti domanderò il nome dell'assassino, quando saremo marito e moglie, me lo dirai?...»

«Te lo dirò», egli promise.

Allora Sabina insisté:

«E anche prima, se occorre, non è vero? Per esempio, se Maria Noina e Pietro Benu dovessero sposarsi...».

Il contadino spalancò gli occhi e strinse rapidamente le labbra, quasi per impedire alla sua bocca di parlare; ma Sabina non aveva bisogno d'altro.

«Ora taci pure; andiamo

S'avvicinarono all'altare nudo e polveroso; Giuseppe accese due ceri, s'inginocchiò a fianco di Sabina e le strinse la mano.

«Io giuro che sarò tuo marito

«Io giuro che sarò tua moglie

Null'altro; ma quando Sabina ritirò la sua mano, che la stretta del giovine aveva riscaldato, si sentì triste fino alle lagrime. Ella non si pentiva del giuramento, ma un velo funebre copriva l'anima sua, un tempo così serena e buona.

 

 


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