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Leon Battista Alberti
Profugiorum ab aerumna Libri III

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  • LIBRO III.
      • -3-
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-3-

 

Ma che volle Omero fingendoinaudita e ostinata pazienza in quel suo Ulisses? Se la pazienza è quella quale rende noi simili a chi nulla curi le offese, non sarà e' più lode al tutto nulla curarle e lasciarne altrui non solo el giudicio e determinazione, ma e ancora la fatica di punire e punendo render migliore chi teco mal visse? E se la pazienza sarà in noi quale fu in Ulisses in dissimulare di sentire quello che lo accuori, non io sono colui che tanto appruovi e preferisca questo instituto di vendicarsi in vita ch'io, per valermi di una onta, sostenga più e più strazi di me e di mia dignità. Né seppi mai meco sì adattarmi a non curare e sopportare la temerità e protervia altrui, che a me non paresse in quel tanto essere omo servile e da biasimarmi. Questi la lodano e prepongonla alle prime virtù, e dicono che la pazienza col starsi cortese vince le squadre delle Furie armate. Se egli è vittoria el ricevere assidui fastidi e trovarsi oppresso da gravissime e intollerabili molestie, essi dicono el vero. Io veggo e provo questo in me tutto el , che 'l mio essere sofferente a me frutta non altro che solo iniurie. El soffrire apre via e alletta la insolenza altrui esserti noioso: el soffrire d'ora in ora t'adduce e oppone nuove traverse e dure offese: el soffrire mai non fu utile se non quanto el mostrarsi e libero e uomo era periculoso. E quanto e' sia insuave, molesto, difficile e tedioso el sopportare la stultizia altrui, altrove sarà da disputarne. Ma giovi, quando che sia, fra 'l vivere e conversare della moltitudine questo dissimulare di nostre voluntà e questo negligere noi stessi e trascurare ogni nostra dignità, qual cosa voi chiamate pazienza. Dite, qual virtù sarà quella che noi sollievi oppressi da e' nostri casi avversi e dalle ruine de' nostri tempi? Diranno que' savi: non curare e' tuoi dolori. Facile precetto a dirlo, facile a dirlo. Ma colui el quale perdette e' noti a sé, domestici, coniunti, amici, e perdette l'altre sue commodità e onestamenti, e perdette sue fortune domestiche, amplitudine, autorità publica e luogo di dignità, e ora si truova in solitudine, assediato da ogni necessità, abietto, destituto, e forse malfermo e poco intero in suoi nervi e membra, come aiterà e soverrà a sé stessi? Voi forse a costui adducerete que' detti vulgatissimi e notissimi: non ti dispiaccia la cecità tua, non ti aggravi la surdità. Quando molte cose testé non vedi e non odi quali soleano adolorarti, assai vedi quando tu discerni le buone cose dalle non buone, le degne dalle non degne, e assai odi quando tu odi te stessi in quelle cose che faccino a virtù e laude. E bene hassi la notte in sé ancora e' suoi diletti. Le fortune, el nome, lo stato, la felicità del vivere, direte che siano cose caduce e fragili. Ed elle pur sono quelle per quali tutti e' mortali contendono col ferro e col fuoco, e per quali espongono suo sudore e sangue e vita; e voi vorrete ch'io non le curidesideri? E pure mi duole, Agnolo, e duolmi non le avere. E bench'io mi disponga coll'animo e al tutto m'affermi a non curare e non desiderare quello che a me sia vetato e perduto, pur quando spesso ora vedo e' luoghi e cose, quando odo e sento questo e quest'altro, quando nel mio pensare trascorro di cosa in cosa, allora, come non solo dicea Dido presso a Virgilio: agnosco veteris vestigia flammae, ma e in prima mi si rinnuovano mie triste memorie e raccendonmisi insieme e' miei dispiaceri oltramodo; e dico anche io:

 

dulces exuviae, dum fata deusque sinebant;

 

e viemmi lacrimato prima ch'io m'avegga del mio o volete errore o volete dolore. Diresti: e perché piagni? Rispondere'ti come rispose Solone filosofo: piango perché sento che 'l pianger nulla giova al mio dolore. Ma in questo chi mi ripreendesse? Noi vediamo natural desiderio fino alle fere silvestre intorno a' nidi e presso a' covili suoi dar segni manifesti de' loro incommodi. E prudentissimo fu quel detto del figliuolo di Nestorre presso del nostro Omero: io non lodo el piangere. E piangere nulla e' morti suoi mi par biasimo, quando questo solo onore si debba a' miseri mortali usciti di vita. Vedi che Priamo, re prudentissimo, alle essequie del suo Ettor, fortissimo figliuolo, comandò si celebrassero e' pianti interi nove , poi el decimo si sepellisse e facessonsi le essequie, e l'undecimo ordinò se gli construisse el sepolcro onoratissimo. Ed ebbe in queste funerali cerimonie chi con modi e canti e versi piangiosi eccitava mestizia e sospiri a chi udiva e vedea. Simile lodano Marco Fabio che, perduto el fratello, recusò la grillanda, insigne publico onoratissimo. Ma che raccontiamo noi essempli de' principi mortali, o donde meglio compreenderemo quel che in questo s'appruovi presso de' dotti e famosissimi scrittori, quando la Dea degl'iddii, presso a Omero, prese el velo nero nel suo merore e cordoglio?




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