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Ma che volle Omero fingendo sì
inaudita e ostinata pazienza in quel suo Ulisses? Se la pazienza è quella quale
rende noi simili a chi nulla curi le offese, non sarà e' più lode al tutto
nulla curarle e lasciarne altrui non solo el giudicio e determinazione, ma e
ancora la fatica di punire e punendo render migliore chi teco mal visse? E se
la pazienza sarà in noi quale fu in Ulisses in dissimulare di sentire quello
che lo accuori, non io sono colui che tanto appruovi e preferisca questo
instituto di vendicarsi in vita ch'io, per valermi di una onta, sostenga più e
più strazi di me e di mia dignità. Né seppi mai meco sì adattarmi a non curare
e sopportare la temerità e protervia altrui, che a me non paresse in quel tanto
essere omo servile e da biasimarmi. Questi la lodano e prepongonla alle prime
virtù, e dicono che la pazienza col starsi cortese vince le squadre delle Furie
armate. Se egli è vittoria el ricevere assidui fastidi e trovarsi oppresso da
gravissime e intollerabili molestie, essi dicono el vero. Io veggo e provo
questo in me tutto el dì, che 'l mio essere sofferente a me frutta non altro
che solo iniurie. El soffrire apre via e alletta la insolenza altrui esserti
noioso: el soffrire d'ora in ora t'adduce e oppone nuove traverse e dure
offese: el soffrire mai non fu utile se non quanto el mostrarsi e libero e uomo
era periculoso. E quanto e' sia insuave, molesto, difficile e tedioso el
sopportare la stultizia altrui, altrove sarà da disputarne. Ma giovi, quando
che sia, fra 'l vivere e conversare della moltitudine questo dissimulare di
nostre voluntà e questo negligere noi stessi e trascurare ogni nostra dignità,
qual cosa voi chiamate pazienza. Dite, qual virtù sarà quella che noi sollievi
oppressi da e' nostri casi avversi e dalle ruine de' nostri tempi? Diranno que'
savi: non curare e' tuoi dolori. Facile precetto a dirlo, facile a dirlo. Ma
colui el quale perdette e' noti a sé, domestici, coniunti, amici, e perdette
l'altre sue commodità e onestamenti, e perdette sue fortune domestiche,
amplitudine, autorità publica e luogo di dignità, e ora si truova in
solitudine, assediato da ogni necessità, abietto, destituto, e forse malfermo e
poco intero in suoi nervi e membra, come aiterà e soverrà a sé stessi? Voi
forse a costui adducerete que' detti vulgatissimi e notissimi: non ti
dispiaccia la cecità tua, non ti aggravi la surdità. Quando molte cose testé
non vedi e non odi quali soleano adolorarti, assai vedi quando tu discerni le
buone cose dalle non buone, le degne dalle non degne, e assai odi quando tu odi
te stessi in quelle cose che faccino a virtù e laude. E bene hassi la notte in
sé ancora e' suoi diletti. Le fortune, el nome, lo stato, la felicità del
vivere, direte che siano cose caduce e fragili. Ed elle pur sono quelle per
quali tutti e' mortali contendono col ferro e col fuoco, e per quali espongono
suo sudore e sangue e vita; e voi vorrete ch'io non le curi né desideri? E pure
mi duole, Agnolo, e duolmi non le avere. E bench'io mi disponga coll'animo e al
tutto m'affermi a non curare e non desiderare quello che a me sia vetato e
perduto, pur quando spesso ora vedo e' luoghi e cose, quando odo e sento questo
e quest'altro, quando nel mio pensare trascorro di cosa in cosa, allora, come
non solo dicea Dido presso a Virgilio: agnosco veteris vestigia flammae,
ma e in prima mi si rinnuovano mie triste memorie e raccendonmisi insieme e'
miei dispiaceri oltramodo; e dico anche io:
dulces exuviae, dum fata
deusque sinebant;
e viemmi lacrimato prima ch'io
m'avegga del mio o volete errore o volete dolore. Diresti: e perché piagni?
Rispondere'ti come rispose Solone filosofo: piango perché sento che 'l pianger
nulla giova al mio dolore. Ma in questo chi mi ripreendesse? Noi vediamo
natural desiderio fino alle fere silvestre intorno a' nidi e presso a' covili
suoi dar segni manifesti de' loro incommodi. E prudentissimo fu quel detto del
figliuolo di Nestorre presso del nostro Omero: io non lodo el piangere. E
piangere nulla e' morti suoi mi par biasimo, quando questo solo onore si debba
a' miseri mortali usciti di vita. Vedi che Priamo, re prudentissimo, alle
essequie del suo Ettor, fortissimo figliuolo, comandò si celebrassero e' pianti
interi nove dì, poi el decimo dì si sepellisse e facessonsi le essequie, e
l'undecimo dì ordinò se gli construisse el sepolcro onoratissimo. Ed ebbe in
queste funerali cerimonie chi con modi e canti e versi piangiosi eccitava
mestizia e sospiri a chi udiva e vedea. Simile lodano Marco Fabio che, perduto
el fratello, recusò la grillanda, insigne publico onoratissimo. Ma che
raccontiamo noi essempli de' principi mortali, o donde meglio compreenderemo
quel che in questo s'appruovi presso de' dotti e famosissimi scrittori, quando
la Dea degl'iddii, presso a Omero, prese el velo nero nel suo merore e
cordoglio?
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