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Leon Battista Alberti
Profugiorum ab aerumna Libri III

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  • LIBRO III.
      • -4-
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-4-

 

AGNOLO. Or così fa, Niccola; tu omo qual sopra gli altri sempre fusti in ogni tuo vita sempre pazientissimo, segui meco argumentando e dissuadendo la pazienza. S'io volessi mostrarti quanto el sapere, come e' dicono, vorare la inezia del volgo e piegarsi alle temerità de' venti e aure populare sempre fu cosa commodissima, e s'io volessi esplicarti quanto l'essere non subito, non precipitoso, non aventato in suoi movimenti d'animo e volontà, sia cosa necessaria in vita, atta a virtù, conveniente a bene e beato traducere ogni suo età piena d'officio, piena di frutto, piena di merito, nulla difficile, nulla iniocunda, nulla disconveniente a chi sia ben confirmato con ragione e bene instituito ad onestà, e dato ad acquistar lode e buona grazia fra i mortali e posterità, non mi basterebbe el ; tanta copia d'ottimi argumenti mi si inondarebbe e suppeditarebbe. Forse altrove a tuo posta ne disputaremo. Per ora, quanto accade al nostro proposito, a me nulla dispiacerà ti consigli colla necessità e colla opportunità de' tempi tuoi. Che dici tu? E' mi dolgono le offese. Io desidero le cose pregiate. Che adunque? E che faremo? Al primo impeto ne scopriremo e ostaremo armati. Guarda, Niccola, quanto sia utile questo consiglio. Dirai: e a te, Agnolo, che ti pare? Vedi quanto io mi ti dia facile e largo. Non vorrei essere udito da questi miei filosofi. Dico, Niccola, e tu, Battista, della sofferenza si vuole avere o nulla o troppo. Nell'altre cose giovi usare mediocrità. In questa, dove tu non puoi presentarti e averti libero, ubbidisci a chi più può. Ad Euripide poeta parea la inobbidienza della moltitudine più che 'l fuoco valida, e più atta a destruere e consumare le cose. E dicono che la moltitudine sempre fu insuperabile. Omero dicea che 'l male sempre vince; ma quanto e dove e a chi bisogni cedere t'insegnerà la necessità. E iudica necessario el cedere sempre dove tu cedendo non peggiori tuo stato; e quello che per ora si può mutare se non in peggio, iudicalo ottimo. Nel resto ti concedo che dove a te sia lecito, mostrati uomo non al tutto sanza stomaco. Spegni, attuta l'arroganza di qualunque te incende ad ira. E così adunque a me non dispiacerà ti consigli colla necessità e colla opportunità de' tempi tuoi in ogni tua impresa e faccenda. Né ti distolgo da' tuoi sensi e proclività umane; né ti interdico che a te non dolga perdere e non avere tuo care cose e amate. Ben ti rammento non perseveri col dolerti, né pur seguiti essere e a te grave e a' tuoi bisogni inutile e sinistro, e che desideri e che chiedi quel che e' mortali pregiano e prepongono, e per quale s'espone el sudore, el sangue, la vita. Questo, s'egli è possibile acquistarlo e recuperarlo col dolerti e col piangere, come molti fanno, segui; vivi in assiduo e profondissimo dolore tanto che tu a te satisfaccia e asseguisca e' tuoi desideri ed espettazione. Fa come fece quel M. Livio, uomo onoratissimo in Roma, quale sperava e a sé stessi promettea el consolato, ma poi repudiato dal populo e caduto dalle sue espettazioni in quella petizione del consolato se lo reputò ad ignominia, e per questo si commise in solitudine, e fuggì piazza, teatri e templi, e fuggì ciascuno luogo pubblico e celebre, e fuggì la patria, e visse anni otto in villa vita cordogliosa e squallida. E se tu pur vedi che 'l tuo lagnarti, e questo tuo condolerti entro a te e questo tuo vivere in tristezza e merore nulla t'apporti d'alcuna di tante cose qual tu vorresti, che stultizia sarà la tua non abdicare da te quel che ti strazia e atterra? Nulla si truova grave e molesto a' nostri animi quanto l'attristarsi dell'altre perturbazioni. La libidine ha in sé un certo ardore, la immodesta letizia ha in sé una inetta levità, la paura ha in sé non so che diffidarsi e troppo umiliarsi. Ma questa egritudine d'animo qual chiamano tristezza, questo dolersi e vivere tedioso a se stessi, ha in sé maggior mali insiti e infissi. Dicea Omero che la miseria presto c'invecchia. E tu così vedi e' cordogliosi deformati, languidi e fedissimi contorcersi ne' loro intimi crucciati, e simile a un trave annoso e corroso da tarli putrirsi e insordidirsi. Adunque e che insania fie la tua pur nutrire in te quel che ti seduce e distiene da ogni tua speme ed espettazione? Che pur segui tu ove nulla giova e molto nuoce el condolerti e attristirti? Non senti tu che questo tuo involgerti e sospignerti col pensiere in questa ortica di tuo triste e ingrate memorie ti rende inabile a discernere e distinguere quel che al bene a te s'acconfaccia in vita, e rendeti inutile ad escogitare e preordinare le cose buone e opportune e abili per evitare e propulsare e' pericoli e difficoltà quale tuttora incorsano e da molte parti noi urtano in vita. Se a te dolgono e' tuoi incommodi, tu a te stesso in questo ne dai cagione quale dolendoti male curi e' fatti tuoi. Se a te dolgono le tue voluttà perdute, riconosciti omai in colpa, ove tu non fughi da te ogni tristezza, e te dai ad altri nuovi diletti e amenità e piaceri. S'e' tuoi onestamenti e gradi perduti ti perturbano, tu in questo rimanti di sinestrar te stessi ove dimostri non esserti per tua prudenza persuaso già più tempo che tu eri non dissimile dagli altri mortali, e sentivi e riconoscevi te subietto ed esposto a' casi vari e volubilità della fortuna. E che giustizia fie la tua se tu pure obdurerai recusando in te alcuna delle condizioni dovute a chi vive? E che officio di prudenza sarà la tua non riconoscerti uomo? E che modestia sarà la tua non por, quando che sia, fine e termine alle tue querele? E che lode d'animo grande e fermo sarà la tua, se tu nato a imperare e regger gli altri, non saprai moderare te stessi? E se in cose alcune bisogna moderazione e ragione e virtù, certo bisogna contro al dolore. Oreste per dolore divenne furioso. Cleobolo filofoso, estinto da sue grave maninconie, uscì di vita. Eccuba fingono che per acerbissimi morsi de' suoi dolori diventò cane e arrabbiò. Niobe fingono che addolatara si convertì in sasso. Adunque se pel dolore si diventa e furioso uomo e arrabbiata bestia e insensato sasso, qual sarà che non curi con ogni sua opera e forza lunge propulsare da sé questo dolersi? Ma tu, Niccola, in ogni mia argumentazione vedi tu come io a te nulla vieto che tu non sia in tue opinioni e volontà uomo sì, ma proibisco non diventi efferato e immanissimo. E tu pur quivi t'affolti, e come la coturnice rinchiusa nella gabbia pur vorrebbe uscire per quel poco che a lei pare non bene intero, tu così quinci forse vorresti uscire in maggior disputazione ed estenderti in più lati campi d'argumentare contro a' detti miei. Oh! egli è cosa molesta e veemente el dolore, e vince: egli è cosa difficile e dura el non sentire e non cedere a' mali suoi. Eschilo poeta tragico, quando egli adduce uno e uno altro degli dii venuti a consolare Prometeo relegato e alligato a quel sasso al Caucaso, non diceano: O Prometeo, non curare e' tuoi mali e non gli sentire; ma diceano: Quello che a te è imposto dal summo Iove, quello che tu non puoi recusare, quello che a te è necessità soffrire, soffrilo con quanto men puoi agitare e infuriare te stessi. E Prometeo pur si lagnava con parole immoderate, e dicea: Io pur feci ch'e' mortali mai più morranno. Io imposi loro molta speranza e molto cieca; e insieme aggiunsi quel vivo e celeste ardore. E qui l'Occeano, massimo degli dii, li rispondea: «Tu, o Prometeo, lascia questo tuo fasto ed elazione antiqua. Usurpa testé nuovi costumi quando el cielo serve a nuovi tiranni, e al tutto modera a questa tua lingua e procacità. L'ira di chi può tanto in te quanto tu pruovi, si sederà colla tua summissione molto più che coll'alterezza. L'ira che ti incuoce si spegne e medica colle umili parole; e gioveratti non raro parere men savi e men dotti che noi non siamo. Della Necessità sono ministri e' Fati triformi e le mai dimentiche Erine».




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