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AGNOLO. Or così fa, Niccola; tu
omo qual sopra gli altri sempre fusti in ogni tuo vita sempre pazientissimo,
segui meco argumentando e dissuadendo la pazienza. S'io volessi mostrarti
quanto el sapere, come e' dicono, vorare la inezia del volgo e piegarsi alle
temerità de' venti e aure populare sempre fu cosa commodissima, e s'io volessi
esplicarti quanto l'essere non subito, non precipitoso, non aventato in suoi
movimenti d'animo e volontà, sia cosa necessaria in vita, atta a virtù,
conveniente a bene e beato traducere ogni suo età piena d'officio, piena di
frutto, piena di merito, nulla difficile, nulla iniocunda, nulla disconveniente
a chi sia ben confirmato con ragione e bene instituito ad onestà, e dato ad
acquistar lode e buona grazia fra i mortali e posterità, non mi basterebbe el
dì; tanta copia d'ottimi argumenti mi si inondarebbe e suppeditarebbe. Forse
altrove a tuo posta ne disputaremo. Per ora, quanto accade al nostro proposito,
a me nulla dispiacerà ti consigli colla necessità e colla opportunità de' tempi
tuoi. Che dici tu? E' mi dolgono le offese. Io desidero le cose pregiate. Che
adunque? E che faremo? Al primo impeto ne scopriremo e ostaremo armati. Guarda,
Niccola, quanto sia utile questo consiglio. Dirai: e a te, Agnolo, che ti pare?
Vedi quanto io mi ti dia facile e largo. Non vorrei essere udito da questi miei
filosofi. Dico, Niccola, e tu, Battista, della sofferenza si vuole avere o
nulla o troppo. Nell'altre cose giovi usare mediocrità. In questa, dove tu non
puoi presentarti e averti libero, ubbidisci a chi più può. Ad Euripide poeta
parea la inobbidienza della moltitudine più che 'l fuoco valida, e più atta a
destruere e consumare le cose. E dicono che la moltitudine sempre fu
insuperabile. Omero dicea che 'l male sempre vince; ma quanto e dove e a chi
bisogni cedere t'insegnerà la necessità. E iudica necessario el cedere sempre
dove tu cedendo non peggiori tuo stato; e quello che per ora si può mutare se
non in peggio, iudicalo ottimo. Nel resto ti concedo che dove a te sia lecito,
mostrati uomo non al tutto sanza stomaco. Spegni, attuta l'arroganza di
qualunque te incende ad ira. E così adunque a me non dispiacerà ti consigli
colla necessità e colla opportunità de' tempi tuoi in ogni tua impresa e
faccenda. Né ti distolgo da' tuoi sensi e proclività umane; né ti interdico che
a te non dolga perdere e non avere tuo care cose e amate. Ben ti rammento non
perseveri col dolerti, né pur seguiti essere e a te grave e a' tuoi bisogni
inutile e sinistro, e che desideri e che chiedi quel che e' mortali pregiano e
prepongono, e per quale s'espone el sudore, el sangue, la vita. Questo, s'egli
è possibile acquistarlo e recuperarlo col dolerti e col piangere, come molti
fanno, segui; vivi in assiduo e profondissimo dolore tanto che tu a te
satisfaccia e asseguisca e' tuoi desideri ed espettazione. Fa come fece quel M.
Livio, uomo onoratissimo in Roma, quale sperava e a sé stessi promettea el
consolato, ma poi repudiato dal populo e caduto dalle sue espettazioni in
quella petizione del consolato se lo reputò ad ignominia, e per questo si
commise in solitudine, e fuggì piazza, teatri e templi, e fuggì ciascuno luogo
pubblico e celebre, e fuggì la patria, e visse anni otto in villa vita
cordogliosa e squallida. E se tu pur vedi che 'l tuo lagnarti, e questo tuo
condolerti entro a te e questo tuo vivere in tristezza e merore nulla t'apporti
d'alcuna di tante cose qual tu vorresti, che stultizia sarà la tua non abdicare
da te quel che ti strazia e atterra? Nulla si truova grave e molesto a' nostri
animi quanto l'attristarsi dell'altre perturbazioni. La libidine ha in sé un
certo ardore, la immodesta letizia ha in sé una inetta levità, la paura ha in
sé non so che diffidarsi e troppo umiliarsi. Ma questa egritudine d'animo qual
chiamano tristezza, questo dolersi e vivere tedioso a se stessi, ha in sé
maggior mali insiti e infissi. Dicea Omero che la miseria presto c'invecchia. E
tu così vedi e' cordogliosi deformati, languidi e fedissimi contorcersi ne'
loro intimi crucciati, e simile a un trave annoso e corroso da tarli putrirsi e
insordidirsi. Adunque e che insania fie la tua pur nutrire in te quel che ti
seduce e distiene da ogni tua speme ed espettazione? Che pur segui tu ove nulla
giova e molto nuoce el condolerti e attristirti? Non senti tu che questo tuo
involgerti e sospignerti col pensiere in questa ortica di tuo triste e ingrate
memorie ti rende inabile a discernere e distinguere quel che al bene a te
s'acconfaccia in vita, e rendeti inutile ad escogitare e preordinare le cose
buone e opportune e abili per evitare e propulsare e' pericoli e difficoltà
quale tuttora incorsano e da molte parti noi urtano in vita. Se a te dolgono e'
tuoi incommodi, tu a te stesso in questo ne dai cagione quale dolendoti male
curi e' fatti tuoi. Se a te dolgono le tue voluttà perdute, riconosciti omai in
colpa, ove tu non fughi da te ogni tristezza, e te dai ad altri nuovi diletti e
amenità e piaceri. S'e' tuoi onestamenti e gradi perduti ti perturbano, tu in
questo rimanti di sinestrar te stessi ove dimostri non esserti per tua prudenza
persuaso già più tempo che tu eri non dissimile dagli altri mortali, e sentivi
e riconoscevi te subietto ed esposto a' casi vari e volubilità della fortuna. E
che giustizia fie la tua se tu pure obdurerai recusando in te alcuna delle
condizioni dovute a chi vive? E che officio di prudenza sarà la tua non
riconoscerti uomo? E che modestia sarà la tua non por, quando che sia, fine e
termine alle tue querele? E che lode d'animo grande e fermo sarà la tua, se tu
nato a imperare e regger gli altri, non saprai moderare te stessi? E se in cose
alcune bisogna moderazione e ragione e virtù, certo bisogna contro al dolore.
Oreste per dolore divenne furioso. Cleobolo filofoso, estinto da sue grave
maninconie, uscì di vita. Eccuba fingono che per acerbissimi morsi de' suoi
dolori diventò cane e arrabbiò. Niobe fingono che addolatara si convertì in
sasso. Adunque se pel dolore si diventa e furioso uomo e arrabbiata bestia e
insensato sasso, qual sarà che non curi con ogni sua opera e forza lunge
propulsare da sé questo dolersi? Ma tu, Niccola, in ogni mia argumentazione
vedi tu come io a te nulla vieto che tu non sia in tue opinioni e volontà uomo
sì, ma proibisco non diventi efferato e immanissimo. E tu pur quivi t'affolti,
e come la coturnice rinchiusa nella gabbia pur vorrebbe uscire per quel poco
che a lei pare non bene intero, tu così quinci forse vorresti uscire in maggior
disputazione ed estenderti in più lati campi d'argumentare contro a' detti
miei. Oh! egli è cosa molesta e veemente el dolore, e vince: egli è cosa
difficile e dura el non sentire e non cedere a' mali suoi. Eschilo poeta
tragico, quando egli adduce uno e uno altro degli dii venuti a consolare
Prometeo relegato e alligato a quel sasso al Caucaso, non diceano: O Prometeo,
non curare e' tuoi mali e non gli sentire; ma diceano: Quello che a te è
imposto dal summo Iove, quello che tu non puoi recusare, quello che a te è
necessità soffrire, soffrilo con quanto men puoi agitare e infuriare te stessi.
E Prometeo pur si lagnava con parole immoderate, e dicea: Io pur feci ch'e'
mortali mai più morranno. Io imposi loro molta speranza e molto cieca; e
insieme aggiunsi quel vivo e celeste ardore. E qui l'Occeano, massimo degli
dii, li rispondea: «Tu, o Prometeo, lascia questo tuo fasto ed elazione
antiqua. Usurpa testé nuovi costumi quando el cielo serve a nuovi tiranni, e al
tutto modera a questa tua lingua e procacità. L'ira di chi può tanto in te
quanto tu pruovi, si sederà colla tua summissione molto più che coll'alterezza.
L'ira che ti incuoce si spegne e medica colle umili parole; e gioveratti non
raro parere men savi e men dotti che noi non siamo. Della Necessità sono
ministri e' Fati triformi e le mai dimentiche Erine».
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