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Leon Battista Alberti
Profugiorum ab aerumna Libri III

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  • LIBRO III.
      • -5-
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-5-

 

Così dicea l'Occeano a Prometeo. E appresso di Euripide, pur greco poeta e tragico, dicea Ulisses ad Eccuba quando e' gli nunziava che l'essercito de' Greci constituiva per utile e salute del nome di Grecia sacrificare agl'iddii la sua figliuola: «Pensa tu, o Eccuba, ora non più lungi a' tuoi mali, e senza contumacia quello che tu non puoi denegare a' casi tuoi». Sempre fu opera di savio usare senno ancora in le cose non buone. E noi che faremo in le nostre avversità? Nulla udiremo questi ottimi ammonimenti degnissimi di mandarli e osservàlli a perpetua memoria? Anzi, come el puledro, pur ne combatteremo e straccheremo subagitando e resteggiando qua e qua, obdurati in nostra contumacia contro a chi ne osserva a regge? E non ci mitigheremososterremo chi ci contiene legati e frena? Indi e come reputeremo noi, disposti a nulla desiderare quello che fia irrecuperabile, costui a cui da ogni minima favilla di sue già estinte memorie si raccendono maggiori cure al petto, né s'avvegga del suo errore altronde che dalle sue proprie lacrime? E che piangi, uomo effemminato? Perdetti; non ho; vorrei. E' fanciugli vezzosi imparano piangere dalla troppa indulgenza della mamma, e quando e' non impetrano da lei quello ch'essi chieggono, allora giova el piangere per satisfarsi. E noi in questo siamo e più leziosi e con men senno ch'e' fanciugli, dove pur perseveriamo contorcendoci e singhiozzando in nostri convenevoli e piagnisteri, e vediamo e conosciamo che nulla giova. Quando a casa di Febe convenirono molti dii per confortarlo nel caso di Fetonte suo figliuolo, piacque a Febo convitarli, e apparecchiò loro secondo el costume antiquo quello epulo e lettisternio consueti. Erano infra que' divi el Pianto e ancora el Riso, fratelli gemini e nati in un solo parto, figliuoli nati della dea Mollizie e di quello Fauno quale e' chiamano Stolidasperum. Pirteo, ordinatore dello apparecchio, procedeva disponendo a' convivati loro luoghi e seggi. Quando e' divenne a questi duoi fratelli, e' si fermò, ché non potea non maravigliarsi mirando quanto e' fussero in ogni loro effigie e liniamenti troppo simili; né appena discerneva indizio alcuno per quale e' riconoscessi l'un dall'altro, che stavano ambedue simili colla faccia straformata dagli altri dii. Vedevigli colla bocca di qua e di qua inversata, collo ciglio contratto e innodato, con gli occhi lucciolosi e rappresi, colle mani e petto e umeri implicati e discommessi. Solo una differenza vi s'aggiugneva: questo è che l'uno di loro ti si porgea tutto bavoso e tutto muccilutoso; l'altro era non in tutto quanto costui a vederlo sozzo e iniocundo. Miravagli Pirteo e dicea: «Non saprei chi mandarmi di voi inanzi a sedere; ma qualunque di voi si move prima, l'altro lo seguiti». E questi due stavano pur quasi stupidi, né cosa favellavano, ma rompevano in voce e gesti inettissimi e disonestissimi. Pirteo, vedendogli così osceni e transformati, si maravigliò che 'nfra 'l numero degli dii ottimi e massimi fussero due sì osceni e iniocundissimi monstri. E nel maravigliarsi, quando esso guardava fiso costui, gl'intervenia che fingeva per maraviglia in sé viso simile a chi e' pendea col guardo e colla mente. E quanto summirava quest'altro, simile imitava quest'altro. Gli dii chi surrise della inezia loro, chi forse si condolse di tanta loro disadattaggine, ed esclusongli dicendo: «Né tu hai viso da onorare un simile convito, né tu hai faccia da consolare e' calamitosi». E certo pur sì, chi vedesse se stessi quando e' piange, o befferebbe tanta svenevolezza o dorrebbegli tanta sua bruttezza. Dirai: e chi può tenere le lacrime nei suoi mali? Natural desiderio. Vedi sino alle bestie pe' boschi e pe' diserti danno segni manifestissimi del loro furore. Forse come per altre molte cose, e per questo ancora in prima sono bestie, se desiderano quello ch'elle nulla possono trovare, o se credono col suo urlare e accanirsi trovar più tosto e con men fatica quello ch'elle siano forse per asseguire. E tu, uomo, che piangi? Se tu avessi altro che fare, certo non piangeresti. E' Ierosolimitani in quel suo ultimo eccidio in quale perirono più di secentomilia conosciuti ebrei oppressi dalla fame, non solo non piangeano, ma si dimenticavano sepellire e' suoi cari e amati. Ulisses presso a Omero, - non senza voluttà rammento spesso el nostro Omero, quando anche a te e' pare specchio della vita umana, - in cena, a chi chiedea da lui che recitasse e' casi suoi, pregò che lasciassino prima ch'e' satisfacesse alla fame e sete sua quando la fame fa dimenticarmi ogni altro merore. E que' compagni di Ulisses non prima che doppo cena appresso l'isola Hyperionis cominciorono a piangere e' suoi perduti cari e amici. E chi troverai tu a chi non superabbundino tuttora cose maggiori e più necessarie e utili e più degne che 'l piangere? E se pur questa insania del piangere ti diletta, almeno fuss'ella con qualche scusa.




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