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Così dicea l'Occeano a Prometeo.
E appresso di Euripide, pur greco poeta e tragico, dicea Ulisses ad Eccuba
quando e' gli nunziava che l'essercito de' Greci constituiva per utile e salute
del nome di Grecia sacrificare agl'iddii la sua figliuola: «Pensa tu, o Eccuba,
ora non più lungi a' tuoi mali, e dà senza contumacia quello che tu non puoi
denegare a' casi tuoi». Sempre fu opera di savio usare senno ancora in le cose
non buone. E noi che faremo in le nostre avversità? Nulla udiremo questi ottimi
ammonimenti degnissimi di mandarli e osservàlli a perpetua memoria? Anzi, come
el puledro, pur ne combatteremo e straccheremo subagitando e resteggiando qua e
qua, obdurati in nostra contumacia contro a chi ne osserva a regge? E non ci
mitigheremo né sosterremo chi ci contiene legati e frena? Indi e come
reputeremo noi, disposti a nulla desiderare quello che fia irrecuperabile,
costui a cui da ogni minima favilla di sue già estinte memorie si raccendono
maggiori cure al petto, né s'avvegga del suo errore altronde che dalle sue
proprie lacrime? E che piangi, uomo effemminato? Perdetti; non ho; vorrei. E'
fanciugli vezzosi imparano piangere dalla troppa indulgenza della mamma, e
quando e' non impetrano da lei quello ch'essi chieggono, allora giova el
piangere per satisfarsi. E noi in questo siamo e più leziosi e con men senno
ch'e' fanciugli, dove pur perseveriamo contorcendoci e singhiozzando in nostri
convenevoli e piagnisteri, e vediamo e conosciamo che nulla giova. Quando a
casa di Febe convenirono molti dii per confortarlo nel caso di Fetonte suo
figliuolo, piacque a Febo convitarli, e apparecchiò loro secondo el costume
antiquo quello epulo e lettisternio consueti. Erano infra que' divi el Pianto e
ancora el Riso, fratelli gemini e nati in un solo parto, figliuoli nati della
dea Mollizie e di quello Fauno quale e' chiamano Stolidasperum. Pirteo,
ordinatore dello apparecchio, procedeva disponendo a' convivati loro luoghi e
seggi. Quando e' divenne a questi duoi fratelli, e' si fermò, ché non potea non
maravigliarsi mirando quanto e' fussero in ogni loro effigie e liniamenti
troppo simili; né appena discerneva indizio alcuno per quale e' riconoscessi
l'un dall'altro, che stavano ambedue simili colla faccia straformata dagli
altri dii. Vedevigli colla bocca di qua e di qua inversata, collo ciglio
contratto e innodato, con gli occhi lucciolosi e rappresi, colle mani e petto e
umeri implicati e discommessi. Solo una differenza vi s'aggiugneva: questo è
che l'uno di loro ti si porgea tutto bavoso e tutto muccilutoso; l'altro era
non in tutto quanto costui a vederlo sozzo e iniocundo. Miravagli Pirteo e
dicea: «Non saprei chi mandarmi di voi inanzi a sedere; ma qualunque di voi si
move prima, l'altro lo seguiti». E questi due stavano pur quasi stupidi, né
cosa favellavano, ma rompevano in voce e gesti inettissimi e disonestissimi.
Pirteo, vedendogli così osceni e transformati, si maravigliò che 'nfra 'l
numero degli dii ottimi e massimi fussero due sì osceni e iniocundissimi
monstri. E nel maravigliarsi, quando esso guardava fiso costui, gl'intervenia
che fingeva per maraviglia in sé viso simile a chi e' pendea col guardo e colla
mente. E quanto summirava quest'altro, simile imitava quest'altro. Gli dii chi
surrise della inezia loro, chi forse si condolse di tanta loro disadattaggine,
ed esclusongli dicendo: «Né tu hai viso da onorare un simile convito, né tu hai
faccia da consolare e' calamitosi». E certo pur sì, chi vedesse se stessi
quando e' piange, o befferebbe tanta svenevolezza o dorrebbegli tanta sua
bruttezza. Dirai: e chi può tenere le lacrime nei suoi mali? Natural desiderio.
Vedi sino alle bestie pe' boschi e pe' diserti danno segni manifestissimi del
loro furore. Forse come per altre molte cose, e per questo ancora in prima sono
bestie, se desiderano quello ch'elle nulla possono trovare, o se credono col
suo urlare e accanirsi trovar più tosto e con men fatica quello ch'elle siano
forse per asseguire. E tu, uomo, che piangi? Se tu avessi altro che fare, certo
non piangeresti. E' Ierosolimitani in quel suo ultimo eccidio in quale perirono
più di secentomilia conosciuti ebrei oppressi dalla fame, non solo non
piangeano, ma si dimenticavano sepellire e' suoi cari e amati. Ulisses presso a
Omero, - non senza voluttà rammento spesso el nostro Omero, quando anche a te
e' pare specchio della vita umana, - in cena, a chi chiedea da lui che
recitasse e' casi suoi, pregò che lasciassino prima ch'e' satisfacesse alla
fame e sete sua quando la fame fa dimenticarmi ogni altro merore. E que'
compagni di Ulisses non prima che doppo cena appresso l'isola Hyperionis
cominciorono a piangere e' suoi perduti cari e amici. E chi troverai tu a chi
non superabbundino tuttora cose maggiori e più necessarie e utili e più degne
che 'l piangere? E se pur questa insania del piangere ti diletta, almeno
fuss'ella con qualche scusa.
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