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Leon Battista Alberti
Profugiorum ab aerumna Libri III

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  • LIBRO III.
      • -17-
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-17-

 

E certo in questo convengo io colla opinione de' pittagorici quali affermavano che 'l nostro animo s'accoglieva e componeva a tranquillità e a quiete revocato e racconsolato dalle suavissime voci e modi di musica. E provai io non rarissimo questo in me, che in mie lassitudini d'animo questa dolcezza e varietà de' suoni e del cantare molto mi sullevorono e restituirono. E proverrete questo voi, se mai v'accade: mai vi s'avvolgerà pell'animo e mente alcuna sì cocente cura che subito ella non si estingua ove voi perseverrete cantando. E non so come a me pare che 'l cantare mio qualunque e' sia, più a me satisfaccia e più giovi che 'l sonare di qualunque altri forse fusse ottimo ed essercitatissimo musico. Né fu senza commodo instituto quel costume antiquissimo, qual poi interdisse el concilio arelatense, che le escubie funerali si vegghiassero cantando. Credo io così faceano que' buoni antiqui per distorre l'animo da que' tristi pensieri del morire. Ma a questi nostri religiosissimi forse parse più utile el ricordarsi d'essere uomo simile a quel morto; e parsegli officio più pio riconoscersi mortale e d'ora in ora caduco che darsi ad alcuna levità e lascivia. Ma el disputare di questo poco sarebbe a proposito. Tanto affermo, che qualunque cosa faremo per recrearci qual sia fatta senza iniuria di persona, sarà non indegna d'uomo studioso. Dice Plutarco: el trasferirsi qua e qua si è quasi come imitare chi fugge. E certo giova pigliare nuovi spassi in vari luoghi e sollazzi; correre, saltare, lanciare, sibillare alla caccia, e fra la gioventù in luogo e tempo atto non mi dispiace. Né mi dispiacerebbe el convivare, el motteggiare, el perdurre la notte co' lumi e giucando con tuoi amici e con la gioventù, e ancora cantare danzando. Quel nostro poeta gridava:

 

Non placet iste ludus, clamo et diludia posco.

 




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