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Leon Battista Alberti
Profugiorum ab aerumna Libri III

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  • LIBRO I.
      • -4-
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-4-

 

AGNOLO. Ben veggo io che tu studi gratificare qui a Battista; e piacemi satisfargli, poiché a lui diletta udirmi, e questi sono certo ragionamenti degni e da seguirli. Io imiterò te, Niccola, in questo disputare, quale ben conosco non referisci la vera tua opinione e sentenza, ma quasi m'allettasti ad esplicare la mia. Adunque discorreremo narrando e raccogliendo quello potesse dire chi come noi volesse più tosto ragionando ostare a' detti altrui che affermare e' suoi. E viemmi a mente quella disputazione di Senofonte, dove Araspa Medo dicea a Ciro che gli uomini avean in sé due animi, l'uno de' quali era vero amatore delle cose iuste e oneste e degne, l'altro era contrario, e cupido dell'ozio più che della industria, dato alle voluttà più che alli studi delle cose degne e rare, subietto e mosso dalla volontà e lascivia più che dalla ragione e constanza; e che lascerebbe a quella sua amata questo animo sinistro, e porterebbe seco quel destro e virile, col quale e' satisfarebbe a Ciro e al suo officio in arme, e dove fussi luogo adoperarsi in virtù. E quanto io, vi confesso, non sono di quella virtù intera, ch'io in tutto tenga escluso da me quello animo sinistro, e non qualche volta erri in quella parte in quale e' dicono abitarvi le passioni, le cupidità, e' dolori, le speranze e simili perturbazioni. Sono in questa età in qual mi vedete vissuto già anni circa novanta. Vidi molte, vidi in vita e soffersi molte, Niccola, molte molestie in vita, e quasi feci calli all'animo con soffrire e' mali; pur talora quando m'occorrono e' casi, non posso fare ch'io non pensi a più cose, e vederommi assalito da certo dolore e da tristezza, né io stessi saperò donde e come. Vincemi la indignazione di troppe ricevute ingiurie, fastidiami la insolenza di tale o quale ambizioso, pesami la audacia, temerità e furioso impeto di chi sciolto urteggia e' buoni, e fra me dico: Agnolo, questo che a te? Tu maturo d'età, a te non mancano le cose desiderate e chieste della fortuna; in te animo netto e grato a' tuoi cittadini; vivi, come e' dicono, omai a te stessi, e usa le cose presenti come presenti. Così con molti simili ammonimenti mi castigo; ma nulla però giovo a me stessi quanto io vorrei, tanto mi vince il non vedere le cose in quel buono assetto ch'io desidero e studio addurle. Ma non è però ch'io non potessi vincere me stessi. E perché no? Perché non potre' io quello che poterono gli altri, quali furono in vita uomini come testé sono io? E quanti furono che osservorono constanza e vera virilità d'animo in le cose dure e aspre? E a noi chi vieterà che non ci sia lecito nelle avversità e gravezze obsistere e deporre ogni perturbazione con buona ragione e consiglio? Non dubito che se vorremo e bene offirmarci con virtù, e bene offirmati opporci con modo a chi ne offende, ci troverremo esseremen che uomini, né men potere che possino gli uomini, né mai sarà sopra alle forze ascritteci dalla natura quello che c'imporanno e' tempi, cioè la successione e varietà delle cose rette dalla natura. Egli scriveno che Socrate fu dalla moglie contumacissima e importuna continuo mal ricevuto, e fu da e' figliuoli immodestissimi in molti modi offeso in casa, e fuori di casa ancora fu da molti insolenti bestialacci e da que' comici poeti assiduo infestato e con varie ingiurie offeso. E benché così fusse da tante parti essagitato, pur visse a qualunque perturbazione della fortuna e a qualunque ruina delle cose sue coll'animo equabile e col volto mai mutato. Potè adunque Socrate questo non da' cieli, ma da sé stessi; ché volle, e volendo potette. Né solo si recita Socrate in questa parte degno di lode: raccontansi molti altri ne' quali fu simile animo bene retto; nel numero de' quali fu Diogene cinico, uomo in sua estrema povertà abietto, svilito e talora percosso: pur potea, quanto e' volea, sofferire e' suoi disagi e l'altrui iniurie. Non racconto Pirro, Eraclito, Timon e simili, quali furono contro alle perturbazioni da sé stessi ben retti e quanto egli istituirono ben costituti, e contro gl'impeti della fortuna sua bene offirmati. Pericle, omo in Grecia e fra e' suoi cittadini reputato e ottimo e primo, sofferse intera una cena sino a molta notte un temerario ottrettatore e maledico; e per più meritare di sé e di sua constanza, patì che lo perseguitasse improverando per insino a casa; e più, con fronte nulla commosso e con le parole nulla alterato, comandò ai servi suoi che a costui, omo iniurioso e incivile, facessero lume e compagnia dovunque e' volesse andare. Non volle adunque Pericle, castigando l'altrui errore, contaminare sé stessi e ricevere a sé la perturbazione quale gli era importata; e non la ricevendo, la fece lievissima e spensela tanto quanto e' deliberò sofferendo e vincendo sé stessi aversi uomo e meritare della virtù sua. Che ti parse di quel Metello numidico cacciato da' suoi cittadini romani non per altro se non perché in lui splendea troppa virtù? Quale, sendo in Asia in teatro mezzo dello spettaculo, gli fu nunziato che la sua patria lo rivocava a grazia con amplissimo beneficio. In tanta sua letizia osservò constanza, e in suoi gesti nulla fu veduto mutarsi.




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