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NICCOLA. Doh! Agnolo, che dura e
iniqua sorte fie quella de' mortali se trovaremo in vita niuno sì inculto di
dottrina, sì alieno d'ogni ragione, quale udendo queste vostre gravissime e
approbatissime sentenze, non v'assentisca e confessi ogni vostro detto esser
vero; e d'altra parte si truovi niuno sì perito e sì essercitato in cose lodate
a bene e beato vivere, quale con opra affermi quanto e' con parole confessa
doversi. E pensiamoci un poco. Se voi domandassi el fratello, el padre, la
madre d'uno di quei fortissimi cittadini quali perirono superati da Annibale
presso al laco Trasumeno qui presso a Cortona: «E che vi dolete? Queste vostre
lacrime che giovano? Non sapete voi che il pregio di queste cose sottoposte
alla fortuna non sta, in buona o mala parte, altrove posto che in la nostra
opinione? Qualunque cosa avvenga a noi mortali mai sarà da chiamarla o
riputarla male se non quanto ella a noi nocerà. Nulla nuoce se non quanto per
lei si diventi piggiore. La ingiustizia, la perfidia, la crudelità fa non te
piggiore, ma colui in cui ella abita. Per qualunque sopravenga fortuna avversa,
per qualunque iniuria de' pessimi uomini, mai sarà chi diventi piggiore se non
quanto e' vorrà, mal sofferendo se stessi, male avere. La morte sta a chi
nacque natural condizione impostagli dal primo dì ch'egli apparisce in vita. E
chi ben ripensa le miserie del viver nostro, la morte non è altro che uscire
d'uno carcere laboriosissimo e d'una assidua fluttuazione e tempesta d'animo.
Giovi a chi espose el sangue suo per salute della patria sua essere uscito di
vita con laude, merito e grazia de' suoi», - dico, Agnolo, se voi usassi presso
a que' calamitosi parole simili, che vi risponderebbono essi? Credo la madre,
vinta dal dolore, arebbe poco atteso e meno inteso alcuna delle vostre parole.
El padre forse, più maturo e d'età e di consiglio, risponderebbe: «Agnolo, voi
dite el vero; ma a me quello che è grave continuo preme, e dove e' mi preme,
non dubitate, e' mi duole». El fratello forse risponderebbe: «Se così fusse
facile el soffrire gl'incomodi e le calamità con quale la nostra fortuna ne
fiacca come è a voi, uomo dottissimo, el disputarne, rendovi certo ch'io m'arei
levata questa molestia ingratissima dall'animo. Ma io sento dal dolor mio quel
ch'io non so con parole esplicarvi, donde e' sia da non assentire a queste
vostre ragioni qui addotte». Così credo vi risponderebbono. E forse se fra
costoro vi fusse un di questi severi supercilii stoici, inventori e disputatori
di queste discipline, so risponderebbe: «Non ci ricordate che noi perseveriamo
in ogni officio e costanza. Queste cose caduce e fragili sono al tutto escluse
da' pensieri e dalle voglie nostre, e sono gli animi nostri adiudicati a cose
per quali viviamo beati e acquistianci immortalità». Simili, credo, sarebbono
le loro parole. Ma e' fatti quali sarebbono? Quanto converrebbono co' detti
loro? E' me gli pare vedere disputare con una maiestà di parole e di gesti, con
una severità di sentenze astritte a qualche silogismo, con una grandigia di sue
opinioni tale che t'aombrano l'animo, e parti quasi uno sacrilegio stimare che
possino dicendo errare. Odi que' loro divini oraculi: «Tu mortale cognosci te
stessi. Di cose poche e minime si contenta la natura. A chi sia savio mai
mancano le cose ottime, mai avviene cosa sinistra, sempre vive libero e sempre
vive lieto». Poi ostentano quella ambiziosa austerità del ripreendere chi sé
forse dia alle delizie; mordono chi curi le cose caduce e fragili; perseguitano
chi succomba al dolore; inimicano chi tema e' pericoli; odiano chi non esca di
vita con animo invitto e nulla perturbato. Uomini prestantissimi! Uomini rari!
E voi con opra come approvate e' vostri detti? Qual fie di voi che potendo non
volesse più tosto viver lauto e splendido, che povero e assediato da molti
incommodi?
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