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Leon Battista Alberti
Profugiorum ab aerumna Libri III

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  • LIBRO I.
      • -14-
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-14-

 

AGNOLO. Vedi, Niccola, queste sono materie dove bisognerebbe ragionarne con più ozio e con più premeditata ragion di disputare. Io resterò d'oppormiti com'io cominciai, ché ti vedo apparecchiato a confutarmi, e sento l'ingegno tuo acuto e pronto; e non m'è occulta quest'arte tua con quale tu studi nascondere quell'arte vulgata dello argumentare disputando; e dilettami. Ma credi tu ch'io non conosca che tu giudichi di queste cose quello che giudicano tutti e' dotti, che chi vuole opporsi alla fortuna, sostenere e' casi avversi e curare nulla altro che la virtù, può? Non insistiamo più in questo, ma consideriamo questo potere quale e di che natura e' sia. Io non potrei dipingerefingere di cera uno Ercole, un fauno, una ninfa, perché non sono essercitato in questi artifici. Potrebbe questo forse qui Battista quale se ne diletta e scrissene. Tu, Niccola, come neanche io, non potresti atto schermire, lanciare, lottare. Potrebbe questo qui Battista in questa sua età robusta, quale in simile cose diede opera ed essercizio. Non potrebbe, no, Battista, come quel Milone atleta, portare uno bue vivo in ispalla, né, come Aulo Numerio, centurione e commilitone di divo Iulio Augusto, contenere con una mano l'impeto di più giumenti, né come quello Atamante qual Plinio vide andare pel teatro vestito di cinquanta corazze di piombo e calzato con coturni che pesavano libbre cinquecento. Né forse potrebbe Cicerone ben lodare Clodio suo capital nimico, sendogli in odio e in dispetto suoi detti e fatti. Così compreendiamo che alcune cose da natura non si possono; alcune non da natura non si possono, ma da nostra inerzia, desidia e concetta opinione sono da noi stessi vetate. Tu dicesti, ciascuno vorrebbe vivere soluto e libero in queste cose quali più sono facili a disputarne che a sofferirle. Ma quel ch'è difficile a questi disputatori, a noi non par possibile. Guarda, Niccola, s'egli è così, che dove ogn'uomo può, rari vogliono ben meritare di sua virtù. Raccontasti uno e un altro splendido e curioso delle cose caduce. Chi ti loda in loro quello che non fu loro debito? E di che disputiamo noi, di quello che fecero, o pur di quello che e' poteano e potendo doveano fare? E se dalla vita e costumi loro dobbiamo argumentare e statuire le ragioni e modo del vivere bene e lodati, raccontiamo quegli altri molti più che questi, pur filosofi, quali furono contenti d'una sola e trita vesta, quali per loro diversorio abitavano un vaso putrido e abietto, quali vissero non d'altro che di cavoli, quali sì abdicorono da sé ogni cosa fragile e caduca che né pure una scodella volsero ritenere a sé. Non te li racconto, ché fuggo anche io esser prolisso; ma tu, omo litterato, riducetegli a memoria e teco pensa donde questi miei così poterono quello che que' tuoi non volsero, e pensa donde que' tuoi non volsero quello che volendo poteano pari a' miei. Troverrai che questi così poterono perché volseno vincereimprima e' suoi appetiti e volontà; quelli non volseno frenare e moderare sé stessi, però soluti e sciolti meno poterono contenersi in suo officio. Seneca fuggì cadere in insidie e veneno di Nerone. Dicea quel prudentissimo Agamenon, presso ad Omero, doversi riprendere niuno quale o o notte che fusse, fuggissi di non incontrarsi al male. Altra cosa è vitare gl'incommodi, altra vinto succombere sanza prima concertare e provare sé stessi e sua virtù. Quello è prudenza provedere e schifare el dispiacere; questo si è ignavia abbandonare sé stessi. E sarà fortezza fare come e' dicono che fa la palma, legno qual sempre s'accurva e impinge contro al suo incarco. Questo ti confesso potrà meglio chi più sarà essercitato nelle durezze de' tempi, nella asperità del vivere, e chi già fece e' calli sofferendo. Diresti; che cagione adunque perturba in noi tanta ragione e officio? Rispondere'ti quello che testé m'occorre a mente; e considerianci, Niccola, s'io m'abatto al vero. Gli animi nostri gli fece la natura atti ad eternità, simplici, nulla composti, non da altri mossi che da sé stessi. La eternità credo io non sia altro che una certa perfezione e continuazione inviolabile di vita e d'esser sempre uno e medesimo. Quello che fu prima coniunto e ascritto alla vita si pruova essere el moto. E' movimenti dell'animo non accade raccontarli qui, ma restici persuaso che l'animo può mai starsi ocioso, sempre si volge e avvolge in sé qualche investigazione o disposizione o appreensione di cose, quali se saranno gravi, degne e tali ch'elle adempiano l'animo, nulla più altro vi si potrà immergere; se saranno lievi, galleggeranno mezzo a' flutti della mente nostra, e, come avviene, di cosa in cosa ondeggeranno e' nostri pensieri persino che picchieranno a qualche scoglio di qualche aspra memoria o dura alcuna volontà, onde poi ivi noi sentiamo gli urti dentro al nostro petto iterati e gravi. Perturbasi ancora in noi l'animo dissoluto dalla ragione e condutto dalla opinione a iudicare falso delle cose buone o non buone, come tutto el vediamo non rari infetti da questa commune corruttela del vivere, quali e piangono e godono più per satisfare al giudicio e sensi altrui che a sé stessi. Ma io di me voglio esplicarvi in qual numero io sia infra e' mortali. Io, Niccola mio, s'io fussi uno di que' calamitosi, desidererei le mie care cose, e non affermerei essere in me sì assoluta e perfetta virtù che non mi dolesse la perdita de' miei; ma cercherei le vie e modi da levarmi ogni molestia dell'animo. E per quanto e' mi paia conoscere, egli è in pronto e quasi in grembo di ciascuno el potersi acquietare da ogni perturbazione e prima ch'elle offendano e poi che tu le concepesti. E poi che 'l ragionare ne condusse a questo, riconosciamo insieme s'io erro.




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