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Leon Battista Alberti
Profugiorum ab aerumna Libri III

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  • LIBRO I.
      • -21-
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-21-

 

Molto più l'animo, nato a mobilità e varietà, più che ogni onda. Sarà adunque la solitudine con qualche essercizio, de' quali più giù diremo. E poiché tante cose aduniamo e facciamo e ordiniamo per salute del corpo per gratificare alle nostre membra, curiamo quando che sia la salute dell'animo nostro. Dicea Omero poeta che agli uomini nascono molti mali dal ventre; e noi pur ci diamo a servire al ventre, onde a noi resultano infiniti incommodi. Dianci adunque a vivere non alle membre nostre ma a noi stessi, cioè a ben fruttare el nostro ingegno. Quando vediamo che sollecitarci in curare le cose di fuori di noi, sono nostre opere e nostri pensieri tanto d'altrui e non nostre quanto quella e quell'altra cosa la richiede e adopra, lascianle guidare alla fortuna di chi elle sono. Non però voglio posporre la salute del corpo; volo sustentare, non saziarlo. Dicea Diogenes cinico: se col grattarsi el ventre si sedasse la fame, forse sì farebbe per gli uomini e forse che no. La fame, se non gli satisfai, infesta e fassi ubidire. Apulegio, accusato, negava sé esser pallido per le cure amatorie, ma affermava che le fatiche degli studi lo allassavano. Quattro cose connumerano e' fisici esterminare e prosternere in noi le forze della natura: il dolore, le vigilie, el fetore, le cure dell'animo. E non so come, indebolite le membra, l'animo sia men libero e men suo. Adunque daremo al corpo quantunche bisogna, e ritrarremolo dalle cose nocive alla sanità. E per non eccitare all'animo altre cure, schifaremo d'avere più d'una faccenda qual sia nulla grave o difficile più che possino le forze nostre. Non però in questa porremo ogni nostro studio, ogni opera, ogni assiduità; anzi interlasseremo qualche ora, e poseremo quando che sia quella veemente contenzione d'animo e perseveranza di nostro studio. Asinio Pollione, nobile oratore, scrive Seneca, sino all'ora del decimaessercitava in ogni laboriosa industria: doppo all'ora decimacontenea in tanto ozio che neppure leggea le lettere scrittegli da' suoi amici. E non senza onestissima ragione e' nostri maggiori patrizi in Roma vetavano si facesse in Senato dopo certa ora nuova relazione, ché voleano a tante faccende interporvi qualche ozio e quiete. Antioco re, dopo che perdé l'Asia, ringraziò el Senato di Roma e fu lieto gli si minuissero faccende. E noi poco prudenti non solo con troppa sollicitudine ci affanniamo in più nostre faccende, ma e non richiesti intraprendiamo le faccende altrui. Antiquo proverbio: chi s'impaccia rimane impacciato. E dispiacemi la stultizia di molti quali, nulla curiosi d'addestrare se stessi a virtù, mai restano investigare e' fatti e detti altrui. E interviene loro come a chi ama, quale scrive quel vezzosissimo poeta Properzio:

 

… rursus puerum quaerendo audita fatigat,

quem, quae scire timet, quaerere plura jubet.

 




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