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Leon Battista Alberti
Profugiorum ab aerumna Libri III

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  • LIBRO I.
      • -34-
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-34-

 

A molti insueti parrebbono cose dure queste qual io racconto. Non sono; e sono facili a chi così dispone volere. E certo ben disse M. Varrone in satyris: «Se di tutta l'opera che tu ponesti in fare che 'l servo tuo fusse buon pistore, tu in adornare te stessi ne avessi esposta la duodecima parte, già più tempo saresti ottimo cittadino. Ora venderesti quel servo molti danari. Te chi mai comperasse per qualunque sia vile prezzo?». E questi essercizi a chi così deliberò, sono certo soavi provandoli, perché si sente di cosa in cosa più su attingere a virtù, e provandoli ancora adducono una felicità da volerla. E chi non volesse non aver bisogno alcuno di tante e sì varie cose quante e' richiede? A chi può tradur suo vita con poche cose, a costui bisognano poche cose. E parmi in prima libertà degna d'uomo potersi senza fastidio e molestia vivere di ciò che gli sia apparecchiato. Dicea Solon filosofo: fra' beni nel secondo luogo sarà bisognarci pochissimo cibo, quando el primo bene sia al tutto nulla bisognarci. Nuoce forse che 'nsino a qui fummo educati in grembo della mamma e in delizie e vezzi del babbo, e ora a noi suppeditano abundante le fortune, né ci pare in tanta amplitudine convenirsi questa austerità del vivere. E qui bisogna provedere. Dissi: rammentati esser uomo esposto a ogni caso; sai ch'e' tempi succedono vari, le cose della fortuna sono inconstanti; bisognaci ne' tempi felici prepararci a potere contro la infelicità. E chi non imparò soffrire, non sa, Niccola, non sa soffrire; e chi imparò, sa e giovagli. Al fratello suo, sdegnato che non era fatto uno de' magistrati chiamati efori, Chilon filosofo, qual più volte era stato in quel numero e luogo di diggnità, rispose: «O fratel mio, non ti maravigliare se teco non sono e' nostri cittadini tali quali e' sono verso di me. Tu non sai soffrire le ingiurie. Io imparai non le curare sofferendole». Ottavia, sorella di Brittanico, scrive Cornelio, imparò persino da' teneri anni ascondere el dolore, la carità e ogni affetto; e giovògli, e fu degna instituzione e dovuta a uno principe in mezzo di tanta affluenza e licenza avvezzarsi a moderare e contenere se stessi. In Arabia dove sono e' pascoli lietissimi, scrive Curzio ch'e' pastori lievano e distengono le pecore da' prati, e questo fanno che per troppo cibo diventerebbono infette. E certo, come dicea Cesare appresso di Sallustio, fra' primi e massimi mali dobbiamo reputarci la troppa licenza. Interpelleremo adunque e comminuiremo a noi stessi quanta potremo licenza, volendo meno che noi non possiamo in ogni altra cosa che in acquistar virtù e meritar gloria.




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