14. CAMPANE A SERA.
Odi, sorella, come
note al core
quelle nel vespro
tinnule campane
empiono l’aria
quasi di sonore
grida lontane ?
A quel tumulto
aereo risponde
dal cuore un fioco
scampanìo, sì lieve,
come stormeggi,
dietro macchie fonde,
candida pieve.
Forse una pieve ne’
cilestri monti
la sagra annunzia
ad ogni casolare,
onde si fece a’
placidi tramonti
lungo parlare;
ed or, sospeso il
ticchettio dell’ago,
guardano donne
verso la marina,
seguendo un fiocco
di bambagia, vago,
che vi s’ostina.
Grandi occhi, sotto
grandi archi di ciglia,
guardano il cielo,
empiendosi di raggi,
là dove l’aria
allumina vermiglia
boschi di faggi.
Voci soavi, voi
tinnite a festa
da così strana e
cupa lontananza,
che là si trova il
desiderio, e resta
qua la speranza.
Io mi rivedo in un branchetto
arguto
di biondi eguali su
per l’Appennino
opaco d’elci: o
snelle, vi saluto,
torri d’Urbino!
Vi riconosco, o due
sottili torri,
vi riconosco, o
memori Cesane
folte di lazzi
cornïoli i borri
e d’avellane.
Vaga lo stuolo
delle rosee bocche
pe’ clivi, e sparge
nella via maestra
messe di fiordalisi
e l’auree ciocche
della ginestra.
Nella via bianca il
novo drappo svaria
coi rosolacci e le
sottili felci;
e par che attenda,
nella solitaria
ombra dell’elci;
pare che attenda
nella via tranquilla,
sotto quest’ampio
palpito sonoro,
uno dai neri monti
su cui brilla
porpora e oro.
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