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Giovanni Pascoli
Myricae

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  • 14. CAMPANE A SERA.
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14. CAMPANE A SERA.

 

Odi, sorella, come note al core

quelle nel vespro tinnule campane

empiono l’aria quasi di sonore

grida lontane ?

 

A quel tumulto aereo risponde

dal cuore un fioco scampanìo, sì lieve,

come stormeggi, dietro macchie fonde,

candida pieve.

 

Forse una pieve ne’ cilestri monti

la sagra annunzia ad ogni casolare,

onde si fece a’ placidi tramonti

lungo parlare;

 

ed or, sospeso il ticchettio dell’ago,

guardano donne verso la marina,

seguendo un fiocco di bambagia, vago,

che vi s’ostina.

 

Grandi occhi, sotto grandi archi di ciglia,

guardano il cielo, empiendosi di raggi,

dove l’aria allumina vermiglia

boschi di faggi.

 

Voci soavi, voi tinnite a festa

da così strana e cupa lontananza,

che si trova il desiderio, e resta

qua la speranza.

 

Io mi rivedo in un branchetto arguto

di biondi eguali su per l’Appennino

opaco d’elci: o snelle, vi saluto,

torri d’Urbino!

 

Vi riconosco, o due sottili torri,

vi riconosco, o memori Cesane

folte di lazzi cornïoli i borri

e d’avellane.

 

Vaga lo stuolo delle rosee bocche

peclivi, e sparge nella via maestra

messe di fiordalisi e l’auree ciocche

della ginestra.

 

Nella via bianca il novo drappo svaria

coi rosolacci e le sottili felci;

e par che attenda, nella solitaria

ombra dell’elci;

 

pare che attenda nella via tranquilla,

sotto quest’ampio palpito sonoro,

uno dai neri monti su cui brilla

porpora e oro.

 

 




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