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Giovanni Pascoli Canti di Castelvecchio IntraText CT - Lettura del testo |
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III.Era il dieci d'agosto. Era su l'ora dello scurire. L'ora del ritorno. Non attese al ritratto egli d'allora più. Mai più, da quell'ora e da quel giorno. Quella sera restammo alla finestra, ancora, ancora. Ma pareva in vano. Sì: era, il babbo, in una via maestra: sì, ma come, ma quanto era lontano! Oltre monti, oltre fiumi, oltre pianure, oltre città. Veniva da Cesena. Di buon trotto. Non anco erano oscure le strade. Solo. L'anima, serena. Oltre fiumi, città, monti, da un monte, il caro figlio lo guardava in viso: ne sfiorava la bianca larga fronte, sorrideva al suo placido sorriso. Oh! mio fratello, che fu mai? La bianca fronte d'un tratto si macchiò di stille rosse, la testa in un attimo stanca per sempre, si piegò, con le pupille ferme in eterno... O tu che sei congiunto a lui, ch'oltre lo spazio, oltre la vita, vedevi allora, oh! non egli in quel punto si sentì su la fronte le tue dita? La tua carezza non gli fu conforto tra il sudor freddo e il rompere del sangue? Non gli fu meglio, o mio fratello morto, non veder là un doppio teschio esangue dietro la siepe, e due vili ombre nere fuggir nell'ombra; ma veder te, noi? miseri, sì, per sempre, ma vedere nella via sola quattro figli suoi? Nella via sola, dopo il soprassalto di pianto, tutti quattro, orfani già, guardammo ancora. E poi guardammo in alto cader le stelle nell'oscurità.
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