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Giovanni Pascoli
Canti di Castelvecchio

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    • 17. IL CIOCCO, CANTO SECONDO.
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17. IL CIOCCO, CANTO SECONDO.

 

Ed il ciocco arse, e fu bevuto il vino

arzillo, tutto. Io salutai la veglia

cupo ronzante, e me ne andai: non solo:

m'accompagnava lo Zi Meo salcigno.

Era novembre. Già dormiva ognuno,

sopra le nuove spoglie di granturco.

Non c'era un lume. Ma brillava il cielo

d'un infinito riscintillamento.

E la Terra fuggiva in una corsa

vertiginosa per la molle strada,

e rotolava tutta in sé rattratta

per la puntura dell'eterno assillo.

E rotolando per fuggir lo strale

d'acuto fuoco che le ruma in cuore,

ella esalava per lo spazio freddo

ansimando il suo grave alito azzurro.

Così, nel denso fiato della corsa

ella vedeva l'iridi degli astri

sguazzare, e nella cava ombra del Cosmo

ella vedeva brividi da squamme

verdi di draghi, e svincoli da fruste

rosse d'aurighi, e lampi dalle freccie

de' sagittari, e spazzi dalle gemme

delle corone, e guizzi dalle corde

delle auree lire; e gli occhi dei leoni

vigili e i sonnolenti occhi dell'orse.

Noi scambiavamo rade le ginocchia

sotto le stelle. Ad ogni nostro passo

trenta miglia la terra era trascorsa,

coi duri monti e le maree sonore.

E seco noi riconduceva al Sole,

e intorno al Sole essa vedea rotare

gli altri prigioni, come lei, nel cielo,

di quella fiamma, che con sé li mena.

Come le sfingi, fosche atropi ossute,

l'acri zanzare e l'esili tignuole,

e qualche spolverìo di moscerini,

girano intorno una lanterna accesa:

una lanterna pendula che oscilla

nella mano d'un bimbo: egli perduta

la monetina in una landa immensa,

la cerca invano per la via che fece

e rifà ora singhiozzando al buio:

e nessun ode e vede lui, ch'è ombra,

ma vede e svede un lume che cammina,

par che vada, e sempre con lui vanno,

gravi ronzando intorno a lui, le sfingi:

lontan lontano son per tutto il cielo

altri lumi che stanno, ombre che vanno,

che per meglio vedere alzano in vano

verso le solitarie Nebulose

l'ardor di Mira e il folgorio di Vega.

Così pensavo; e non trovai me stesso

più, né l'alta marmorea Pietrapana,

sopra un grano di polvere dell'ala

della falena che ronzava al lume:

dell'ala che in quel punto era nell'ombra;

della falena che coi duri monti

e col sonoro risciacquar dei mari

mille miglia in quel punto era trascorsa.

Ed incrociò con la sua via la strada

d'un mondo infranto, e nella strada ardeva,

come brillante nuvola di fuoco,

la polvere del suo lungo passaggio.

Ma niuno sa donde venisse, e quanto

lontane plaghe già battesse il carro

che senza più l'auriga ora sfavilla

passando rotto per le vie del Sole.

sa che cosa carreggiasse intorno

ad uno sconosciuto astro di vita,

allora forse di su lui cantando

i viatori per la via tranquilla;

quando urtò, forviò, si spezzò, corse

in fumo e fiamme per gli eterei borri,

precipitando contro il nostro Sole,

versando il suo tesoro oltresolare:

stelle; che accese in un attimo e spente,

rigano il cielo d'un pensier di luce.

, dove i mondi sembrano con lenti

passi, come concorde immensa mandra,

pascere il fior dell'etere pian piano,

beati della eternità serena;

pieno è di crolli, e per le vie, battute

da stelle in fuga, come rossa nube

fuma la densa polvere del cielo;

e una mischia incessante arde tra il fumo

delle rovine, come se Titani

aeriformi, agli angoli del Cosmo,

l'un l'altro ardendo di ferir, lo spazio

fendessero con grandi astri divelti.

Ma verrà tempo che sia pace, e i mondi,

fatti più densi dal cader dei mondi,

stringan le vene e succhino d'intorno

e in sé serrino ogni atomo di vita:

quando sarà tra mondo e mondo il Vuoto

gelido oscuro tacito perenne;

e il Tutto si confonderà nel Nulla,

come il bronzo nel cavo della forma;

e più la morte non sarà. Ma il vento

freddo che sibilando odo staccare

le foglie secche, non sarà più forse,

quando si spiccherà l'ultima foglia?

E nel silenzio tutto avrà riposo

dalle sue morti; e ciò sarà la morte.

 

Io riguardava il placido universo

e il breve incendio che v'ardea da un canto.

 

Tempo sarà (ma è! poi ch'il veloce

immobilmente fiume della vita

è nella fonte, sempre, e nella foce),

tempo, che persuasa da due dita

leggiere, mi si chiuda la pupilla:

né però sia la vision finita.

Oh! il cieco io sia che, nella sua tranquilla

anima, vede, fin che sa che intorno

a lui c'è qualche aperto occhio che brilla!

Così, quand'io, nel nostro breve giorno,

guardo, e poi, quasi in ciò che guardo un velo

fosse, un'ombra, col lento occhio ritorno

a un guizzo d'ala, a un tremolìo di stelo:

qundo a mirar torniamo anche una volta

ciò ch'arde in cuore, ciò che brilla in cielo;

noi s'è la buona umanità che ascolta

l'esile strido, il subito richiamo,

il dubbio della umanità sepolta:

e le risponde: - Io vivo, sì, viviamo. -

 

Tempo sarà che tu, Terra, percossa

dall'urto d'una vagabonda mole,

divampi come una meteora rossa;

e in te scompaia, in te mutata in Sole,

morte con vita, come arde e scompare

la carta scritta con le sue parole.

Ma forse allora ondeggerà nel Mare

del nettare l'azzurra acqua, e la vita

verzicherà su l'Appennin lunare.

La vecchia tomba rivivrà, fiorita

di ninfèe grandi, e più di noi sereno

vedrà la luce il primo Selenita.

Poi, la placida notte, quando il Seno

dell'iridi ed il Lago alto e selvaggio

dei sogni trema sotto il Sol terreno;

errerà forse, in quell'eremitaggio

del Cosmo, alcuno in cerca del mistero;

e nello spettro ammirerà d'un raggio

la traccia ignita dell'uman pensiero.

 

O sarà tempo, che di , da quella

profondità dell'infinito abisso,

dove niuno mai vide orma di stella;

un atomo d'un altro atomo scisso

in mille nulla, a mezzo il , da un canto

guardi la Terra come un occhio fisso;

e venga, e sembri come un elianto,

la notte, e il giorno, come luna piena;

e la Terra alzi il cupo ultimo pianto;

e sotto il nuovo Sole che balena

nella notte non più notte, risplenda

la Terra, come una deserta arena;

e Sole avanzi contro Sole, e prenda

già mezzo il cielo, e come un cielo immenso

su noi discenda, e tutto in lui discenda...

Io guardo dove biancheggia un denso

sciame di mondi, quanti atomi a volo

sono in un raggio: alla Galassia: e penso:

O Sole, eterno tu non sei - né solo! -

 

Anima nostra! fanciulletto mesto!

nostro buono malato fanciulletto,

che non t'addormi, s'altri non è desto!

felice, se vicina al bianco letto

s'indugia la tua madre che conduce

la tua manina dalla fronte al petto;

contento almeno, se per te traluce

l'uscio da canto, e tu senti il respiro

uguale della madre tua che cuce;

il respiro o il sospiro; anche il sospiro;

o almeno che tu oda uno in faccende

per casa, o almeno per le strade a giro;

o veda almeno un lume che s'accende

da lungi, e senta un suono di campane

che lento ascende e che dal cielo pende;

almeno un lume, e l'uggiolìo d'un cane:

un fioco lume, un debole uggiolìo:

un lumicino... Sirio: occhio del Cane

che veglia sopra il limitar di Dio!

 

Ma se al fine dei tempi entra il silenzio?

se tutto nel silenzio entra? la stella

della rugiada e l'astro dell'assenzio?

Atair, Algol? se, dopo la procella

dell'Universo, lenta cade e i Soli

la neve della Eternità cancella?

che poseranno senza mai più voli

né mai più urti né mai più faville,

fermi per sempre ed in eterno soli!

Una cripta di morti astri, di mille

fossili mondi, ove non più risuoni

né un appartato gocciolìo di stille;

non fiumi più, di tanti milioni

d'esseri, un fiato; non rimanga un moto,

delle infinite costellazioni!

Un sepolcreto in cui da sé remoto

dorma il gran Tutto, e dalle larghe porte

non entri un sogno ad aleggiar nel vuoto

sonno di ciò che fu! - Questa è la morte! -

 

Questa, la morte! questa sol, la tomba...

se già l'ignoto Spirito non piova

con un gran tuono, con una gran romba;

e forse le macerie anco sommuova,

e batta a Vega Aldebaran che forse

dian, le due selci, la scintilla nuova;

e prenda in mano, e getti alle lor corse,

sotto una nuova lampada polare,

altri Cigni, altri Aurighi, altre Grand'Orse;

e li getti a cozzare, a naufragare,

a seminare dei rottami sparsi

del lor naufragio il loro etereo mare;

e li getti a impietrarsi a consumarsi,

fermi i lunghi millenni de' millenni

nell'impietrarsi, ed in un attimo arsi;

all'infinito lor volo li impenni,

anzi no, li abbandoni all'infinita

loro caduta: a rimorir perenni:

alla vita alla vita, anzi: alla vita!

Io mi rivolgo al segno del Leone

dond'arde il fuoco in che si muta un astro,

alle Pleiadi, ai Carri, alle Corone,

indifferenti al tacito disastro;

ai tanti Soli, ai Soli bianchi, ai rossi

Soli, lucenti appena come crune,

ai lor pianeti, ignoti a noi, ma scossi

dalla misteriosa ansia comune;

a voi, a voi, girovaghe Comete

che sapete le vie del ciel profondo;

o Nebulose oscure, a voi che siete

granai del cielo, ogni cui grano è un mondo:

di di voi, di del firmamento,

di del più lontano ultimo Sole;

io grido il lungo fievole lamento

d'un fanciulletto che non può, non vuole

dormire! di questa anima fanciulla

che non ci vuole, non ci sa morire!

che chiuder gli occhi, e non veder più nulla,

vuole sotto il chiaror dell'avvenire!

morire, sì; ma che si viva ancora

intorno al suo gran sonno, al suo profondo

oblìo; per sempre, ov'ella visse un'ora;

nella sua casa, nel suo dolce mondo:

anche, se questa Terra arsa, distrutto

questo Sole, dall'ultimo sfacelo

un astro nuovo emerga, uno, tra tutto

il polverìo del nostro vecchio cielo.

Così pensavo: e lo Zi Meo guardando

ciò ch'io guardava, mormorò tranquillo:

«Stellato fisso: domattina piove».

Era andato alle porche il suo pensiero.

Bene egli aveva sementato il grano

nella polvere, all'aspro; e San Martino

avea tenuta per più la pioggia

per non scoprire e portar via la seme.

Ma era già durata assai la state

di San Martino, e facea bono l'acqua.

E lo Zi Meo, sicuro di svegliarsi

domani al rombo d'una grande acquata,

era contento, e andava a riposare,

parlando di Chioccetta e di Mercanti,

sopra le nuove spoglie di granturco,

la cara vita cui nutrisce il pane.

 




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