17. IL CIOCCO, CANTO SECONDO.
Ed il ciocco arse,
e fu bevuto il vino
arzillo, tutto. Io
salutai la veglia
cupo ronzante, e me
ne andai: non solo:
m'accompagnava lo
Zi Meo salcigno.
Era novembre. Già
dormiva ognuno,
sopra le nuove
spoglie di granturco.
Non c'era un lume.
Ma brillava il cielo
d'un infinito
riscintillamento.
E la Terra fuggiva
in una corsa
vertiginosa per la
molle strada,
e rotolava tutta in
sé rattratta
per la puntura
dell'eterno assillo.
E rotolando per
fuggir lo strale
d'acuto fuoco che
le ruma in cuore,
ella esalava per lo
spazio freddo
ansimando il suo
grave alito azzurro.
Così, nel denso
fiato della corsa
ella vedeva l'iridi
degli astri
sguazzare, e nella
cava ombra del Cosmo
ella vedeva brividi
da squamme
verdi di draghi, e
svincoli da fruste
rosse d'aurighi, e
lampi dalle freccie
de' sagittari, e
spazzi dalle gemme
delle corone, e
guizzi dalle corde
delle auree lire; e
gli occhi dei leoni
vigili e i sonnolenti
occhi dell'orse.
Noi scambiavamo
rade le ginocchia
sotto le stelle. Ad
ogni nostro passo
trenta miglia la
terra era trascorsa,
coi duri monti e le
maree sonore.
E seco noi riconduceva
al Sole,
e intorno al Sole
essa vedea rotare
gli altri prigioni,
come lei, nel cielo,
di quella fiamma,
che con sé li mena.
Come le sfingi,
fosche atropi ossute,
l'acri zanzare e
l'esili tignuole,
e qualche spolverìo
di moscerini,
girano intorno una
lanterna accesa:
una lanterna
pendula che oscilla
nella mano d'un
bimbo: egli perduta
la monetina in una
landa immensa,
la cerca invano per
la via che fece
e rifà ora
singhiozzando al buio:
e nessun ode e vede
lui, ch'è ombra,
ma vede e svede un
lume che cammina,
né par che vada, e
sempre con lui vanno,
gravi ronzando
intorno a lui, le sfingi:
lontan lontano son
per tutto il cielo
altri lumi che
stanno, ombre che vanno,
che per meglio
vedere alzano in vano
verso le solitarie
Nebulose
l'ardor di Mira e
il folgorio di Vega.
Così pensavo; e non
trovai me stesso
più, né l'alta
marmorea Pietrapana,
sopra un grano di
polvere dell'ala
della falena che
ronzava al lume:
dell'ala che in
quel punto era nell'ombra;
della falena che
coi duri monti
e col sonoro
risciacquar dei mari
mille miglia in
quel punto era trascorsa.
Ed incrociò con la
sua via la strada
d'un mondo
infranto, e nella strada ardeva,
come brillante
nuvola di fuoco,
la polvere del suo
lungo passaggio.
Ma niuno sa donde
venisse, e quanto
lontane plaghe già
battesse il carro
che senza più
l'auriga ora sfavilla
passando rotto per
le vie del Sole.
Né sa che cosa
carreggiasse intorno
ad uno sconosciuto
astro di vita,
allora forse di su
lui cantando
i viatori per la
via tranquilla;
quando urtò,
forviò, si spezzò, corse
in fumo e fiamme
per gli eterei borri,
precipitando contro
il nostro Sole,
versando il suo
tesoro oltresolare:
stelle; che accese
in un attimo e spente,
rigano il cielo
d'un pensier di luce.
Là, dove i mondi
sembrano con lenti
passi, come
concorde immensa mandra,
pascere il fior
dell'etere pian piano,
beati della
eternità serena;
pieno è di crolli,
e per le vie, battute
da stelle in fuga,
come rossa nube
fuma la densa
polvere del cielo;
e una mischia
incessante arde tra il fumo
delle rovine, come
se Titani
aeriformi, agli
angoli del Cosmo,
l'un l'altro
ardendo di ferir, lo spazio
fendessero con
grandi astri divelti.
Ma verrà tempo che
sia pace, e i mondi,
fatti più densi dal
cader dei mondi,
stringan le vene e
succhino d'intorno
e in sé serrino
ogni atomo di vita:
quando sarà tra
mondo e mondo il Vuoto
gelido oscuro
tacito perenne;
e il Tutto si
confonderà nel Nulla,
come il bronzo nel
cavo della forma;
e più la morte non
sarà. Ma il vento
freddo che
sibilando odo staccare
le foglie secche,
non sarà più forse,
quando si spiccherà
l'ultima foglia?
E nel silenzio
tutto avrà riposo
dalle sue morti; e
ciò sarà la morte.
Io riguardava il
placido universo
e il breve incendio
che v'ardea da un canto.
Tempo sarà (ma è!
poi ch'il veloce
immobilmente fiume
della vita
è nella fonte,
sempre, e nella foce),
tempo, che persuasa
da due dita
leggiere, mi si
chiuda la pupilla:
né però sia la vision
finita.
Oh! il cieco io sia
che, nella sua tranquilla
anima, vede, fin
che sa che intorno
a lui c'è qualche
aperto occhio che brilla!
Così, quand'io, nel
nostro breve giorno,
guardo, e poi,
quasi in ciò che guardo un velo
fosse, un'ombra,
col lento occhio ritorno
a un guizzo d'ala,
a un tremolìo di stelo:
qundo a mirar
torniamo anche una volta
ciò ch'arde in
cuore, ciò che brilla in cielo;
noi s'è la buona
umanità che ascolta
l'esile strido, il
subito richiamo,
il dubbio della
umanità sepolta:
e le risponde: - Io
vivo, sì, viviamo. -
Tempo sarà che tu,
Terra, percossa
dall'urto d'una
vagabonda mole,
divampi come una
meteora rossa;
e in te scompaia,
in te mutata in Sole,
morte con vita,
come arde e scompare
la carta scritta
con le sue parole.
Ma forse allora
ondeggerà nel Mare
del nettare
l'azzurra acqua, e la vita
verzicherà su
l'Appennin lunare.
La vecchia tomba
rivivrà, fiorita
di ninfèe grandi, e
più di noi sereno
vedrà la luce il
primo Selenita.
Poi, la placida
notte, quando il Seno
dell'iridi ed il
Lago alto e selvaggio
dei sogni trema
sotto il Sol terreno;
errerà forse, in
quell'eremitaggio
del Cosmo, alcuno
in cerca del mistero;
e nello spettro
ammirerà d'un raggio
la traccia ignita
dell'uman pensiero.
O sarà tempo, che
di là, da quella
profondità
dell'infinito abisso,
dove niuno mai vide
orma di stella;
un atomo d'un altro
atomo scisso
in mille nulla, a
mezzo il dì, da un canto
guardi la Terra
come un occhio fisso;
e venga, e sembri
come un elianto,
la notte, e il
giorno, come luna piena;
e la Terra alzi il
cupo ultimo pianto;
e sotto il nuovo
Sole che balena
nella notte non più
notte, risplenda
la Terra, come una
deserta arena;
e Sole avanzi
contro Sole, e prenda
già mezzo il cielo,
e come un cielo immenso
su noi discenda, e
tutto in lui discenda...
Io guardo là dove
biancheggia un denso
sciame di mondi,
quanti atomi a volo
sono in un raggio:
alla Galassia: e penso:
O Sole, eterno tu
non sei - né solo! -
Anima nostra!
fanciulletto mesto!
nostro buono malato
fanciulletto,
che non t'addormi, s'altri
non è desto!
felice, se vicina
al bianco letto
s'indugia la tua
madre che conduce
la tua manina dalla
fronte al petto;
contento almeno, se
per te traluce
l'uscio da canto, e
tu senti il respiro
uguale della madre
tua che cuce;
il respiro o il
sospiro; anche il sospiro;
o almeno che tu oda
uno in faccende
per casa, o almeno
per le strade a giro;
o veda almeno un lume
che s'accende
da lungi, e senta
un suono di campane
che lento ascende e
che dal cielo pende;
almeno un lume, e
l'uggiolìo d'un cane:
un fioco lume, un
debole uggiolìo:
un lumicino...
Sirio: occhio del Cane
che veglia sopra il
limitar di Dio!
Ma se al fine dei
tempi entra il silenzio?
se tutto nel
silenzio entra? la stella
della rugiada e
l'astro dell'assenzio?
Atair, Algol? se,
dopo la procella
dell'Universo,
lenta cade e i Soli
la neve della
Eternità cancella?
che poseranno senza
mai più voli
né mai più urti né
mai più faville,
fermi per sempre ed
in eterno soli!
Una cripta di morti
astri, di mille
fossili mondi, ove
non più risuoni
né un appartato
gocciolìo di stille;
non fiumi più, di
tanti milioni
d'esseri, un fiato;
non rimanga un moto,
delle infinite
costellazioni!
Un sepolcreto in
cui da sé remoto
dorma il gran
Tutto, e dalle larghe porte
non entri un sogno
ad aleggiar nel vuoto
sonno di ciò che fu!
- Questa è la morte! -
Questa, la morte!
questa sol, la tomba...
se già l'ignoto
Spirito non piova
con un gran tuono,
con una gran romba;
e forse le macerie
anco sommuova,
e batta a Vega
Aldebaran che forse
dian, le due selci,
la scintilla nuova;
e prenda in mano, e
getti alle lor corse,
sotto una nuova
lampada polare,
altri Cigni, altri
Aurighi, altre Grand'Orse;
e li getti a
cozzare, a naufragare,
a seminare dei
rottami sparsi
del lor naufragio
il loro etereo mare;
e li getti a
impietrarsi a consumarsi,
fermi i lunghi
millenni de' millenni
nell'impietrarsi,
ed in un attimo arsi;
all'infinito lor
volo li impenni,
anzi no, li
abbandoni all'infinita
loro caduta: a
rimorir perenni:
alla vita alla
vita, anzi: alla vita!
Io mi rivolgo al
segno del Leone
dond'arde il fuoco
in che si muta un astro,
alle Pleiadi, ai
Carri, alle Corone,
indifferenti al
tacito disastro;
ai tanti Soli, ai
Soli bianchi, ai rossi
Soli, lucenti
appena come crune,
ai lor pianeti,
ignoti a noi, ma scossi
dalla misteriosa
ansia comune;
a voi, a voi,
girovaghe Comete
che sapete le vie
del ciel profondo;
o Nebulose oscure,
a voi che siete
granai del cielo,
ogni cui grano è un mondo:
di là di voi, di là
del firmamento,
di là del più
lontano ultimo Sole;
io grido il lungo
fievole lamento
d'un fanciulletto
che non può, non vuole
dormire! di questa
anima fanciulla
che non ci vuole,
non ci sa morire!
che chiuder gli
occhi, e non veder più nulla,
vuole sotto il
chiaror dell'avvenire!
morire, sì; ma che
si viva ancora
intorno al suo gran
sonno, al suo profondo
oblìo; per sempre,
ov'ella visse un'ora;
nella sua casa, nel
suo dolce mondo:
anche, se questa
Terra arsa, distrutto
questo Sole,
dall'ultimo sfacelo
un astro nuovo
emerga, uno, tra tutto
il polverìo del
nostro vecchio cielo.
Così pensavo: e lo
Zi Meo guardando
ciò ch'io guardava,
mormorò tranquillo:
«Stellato fisso:
domattina piove».
Era andato alle
porche il suo pensiero.
Bene egli aveva
sementato il grano
nella polvere,
all'aspro; e San Martino
avea tenuta per più
dì la pioggia
per non scoprire e
portar via la seme.
Ma era già durata
assai la state
di San Martino, e
facea bono l'acqua.
E lo Zi Meo, sicuro
di svegliarsi
domani al rombo
d'una grande acquata,
era contento, e
andava a riposare,
parlando di
Chioccetta e di Mercanti,
sopra le nuove
spoglie di granturco,
la cara vita cui
nutrisce il pane.
|