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Giovanni Pascoli Canti di Castelvecchio IntraText CT - Lettura del testo |
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17. IL CIOCCO, CANTO PRIMO.
Il babbo mise un gran ciocco di quercia su la brace; i bicchieri avvinò; sparse il goccino avanzato; e mescé piano piano, perché non croccolasse, il vino. Ma, presa l'aria, egli mesceva andante. E ciascuno ebbe in mano il suo bicchiere, pieno, fuor che i ragazzi; essi, al bicchiere materno, ognuno ne sentiva un dito. Fecero muti i vegliatori il saggio, lodando poi, parlando dei vizzati buoni; ma poi passarono allo strino, quindi all'annata trista e tribolata. E le donne ripresero a filare, con la ròcca infilata nel pensiere: tiravano prillavano accoccavano sfacendo i gruppi a or a or coi denti. Come quando nell'umida capanna le magre manze mangiano, e via via, soffiando nella bassa greppia vuota, alzano il muso, e dalla rastrelliera tirano fuori una boccata d'erba; d'erba lupina co' suoi fiori rossi, nel maggio indafarito, ma nel verno, d'arida paglia e tenero guaime; così dalla mannella, ogni momento, nuova tiglia guidata era nel fuso. Io dissi: «Brucia la capanna a gente!» E i vegliatori, col bicchiere in mano, tutti volsero gli occhi alla finestra, quasi a vedere il lustro della vampa, ad ascoltare il martellare a fuoco, ton ton ton, nella notte insonnolita. Non c'era nella notte altro splendore che di lontane costellazioni, e non c'era altro suono di campana, se non della campana delle nove, che da Barga ripete al campagnolo: - Dormi, che ti fa bono! bono! bono! - Non capparone ardeva per le selve, zeppo di fronde aspre dal tramontano; non meta di vincigli di castagno, fatti d'agosto per serbarli al verno; non metato soletto in cui seccasse a un fuoco dolce il dolce pan di legno: sopra le cannaiole le castagne cricchiano, e il rosso fuoco arde nel buio. Al buio il rio mandava un gorgoglìo, come s'uno ci fosse a succhiar l'acqua. Tutto era pace: sotto ogni catasta sornacchiava il suo ghiro rattrappito. In cima al colle un nero metatello fumava appena in mezzo alla Grand'Orsa. Che bruciava?... La quercia, assai vissuta, fu scalzata da molte opre, e fu svelta e giacque morta. Ma la secca scorza, all'acqua e al sole rifiorì di muschi; e un'altra vita brulicò nel legno che intarmoliva: un popolo infinito che ben sapeva l'ordine e la legge, v'impresse i solchi di città ben fatte. E chi faceva nuove case ai nuovi, e chi per tempo rimettea la roba, e chi dentro allevava i dolci figli, e chi portava i cari morti fuori. Quando s'udì l'ingorda sega un giorno rodere rauca torno torno il tronco; e il secco colpo rimbombò del mazzo calato da un ansante ululo d'uomo. E il tronco sodo ora sputava fuori la zeppola d'acciaio con uno sprillo, or la pigliava, e si sentiva allora crepare il legno frangolo, e stioccare le stiglie, or dalla gran forza strappate, ora recise dalla liscia accetta: lucida accetta che alzata a due mani spaccava i ciocchi e ne facea le schiampe. Le schiampe alcuno accatastò; poi altri se le portò nella legnaia opaca. Del popolo infinito era una gente rimasta in un dei ciocchi. Ebbe l'accetta molte case distrutte, ebbe d'un colpo il mazzo molte sue tribù schicciate. Ma i sorvissuti non sapean già nulla: ché volgendo i lor mille anni in un anno, chi schivò l'ascia, chi campò dal mazzo, l'ago sentì, che, dopo un po' che cuce, il Tempo, uggito, punta nel lavoro, e se ne va. Nessuno ora sapeva che il mondo loro fu congiunto al tutto della gran quercia sotto un cielo azzurro. Sapeva ognuno che non c'era altr'aria che quell'odor di mucido, altro suono che il grave gracilar delle galline e il sottile stridìo dei pipistrelli: dei pipistrelli che pendeano a pigne dai cantoni, nel giorno, quando il sole facea passare i fili suoi tra i licci d'una tela che ordiva un vecchio ragno. Così passava la lor cauta vita nell'odoroso tarmolo del ciocco: e chi faceva nuove case ai nuovi, e chi per tempo rimettea la roba, e chi dentro allevava i dolci figli, e chi portava i cari morti fuori. E videro l'incendio ora e la fine i vegliatori: disse ognun la sua. E disse il Biondo, domator del ferro, cui la verde Corsonna ama, e gli scende cantando per le selve allo stendino, e per lui picchia non veduta il maglio: «Vogliono dire ch'hanno tutti i ferri, quanti con sé porta il bottaio, allora ch'è preso a opra avanti la vendemmia: l'aspro saracco, l'avido succhiello, e tenaglie che azzeccano, e rugnare di scabra raspa e scivolar di pialla. Ché non hanno bottega: a giro vanno come il nero magnano, quando passa con quello scampanìo sopra il miccetto; ossia concino, o fradicio ombrellaio, voce del verno, la qual morde il cuore a chi non fece le rimesse a tempo. Né leo leo vanno, come loro. Piglian le gambe e stradano, la vita, come noi, strinta dal grembial di cuoio». E disse il Topo, portatore in collo, primo, fuor che del Nero; sì, ma questi porta più poco, e brontola incaschito: - Carico piccolo è che scenta il bosco -: «Vogliono dire ch'han la tiglia soda più che nimo altri che di mattinata porti in monte il cavestro e la bardella. E hanno l'arte, perché intorno al peso girano ora all'avanti ora all'indietro or dalle parti, per entrarci sotto. Se lo possono, via, telano; quando non lo possono, vanno per aiuto; e su e su, per una carraiuola: come una nera fila di muletti di solitari carbonai, su l'Alpe, che in quel silenzio semina i tintinni de' suoi sonagli. Alcuno ecco s'espone, come anco noi, per ragionar con altri che scende, e frescheggiare allo sciurino». E disse il Menno, vangatore a fondo, a cui la terra, nell'aprir d'aprile, rotta e domata ai piedi ansa e rifiata: e' la sogguarda curvo su l'astile: «Ho inteso dire ch'hanno i suoi poderi, come noi. Sotto le città ben fatte coltano un campo sodo: che bel bello si fa lo scasso, e qua si tira dentro, là si leva la terra, e si tramuta con le pale o valletti e cestinelle. La pareggiano, seminano. Nasce un'erba. Ed ecco poi vanno a pulirla, levano il loglio, scerbano i vecciuli, e scentano la sciàmina, cattiva, e la gramigna, che riè cattiva, e i paternostri, ch'è peggior di tutte. A suo tempo si sega, lega, ammeta, scuote, ventola, spula. Eccolo bello nel bel soppiano dai due godi il grano». E disse il Bosco, buon pastor di monte, ch'era ad albergo: egli da Pratuscello mena il branco alla Pieve, a quei guamacci: per là dicon guamacci: è il terzo fieno: «Ho inteso dire ch'hanno le sue bestie: quali, pecore, e quali, proprio bestie, ossia da frutto, ovvero anche da groppa. Ma piccoline e verdi queste, e quelle con una lana molle come sputo: pascono in cento un cuccolo di fiore. E il pastore ha due verghe, esso, non una: due, con nodetti, come canne; e molge con esse: le vellìca, e dànno il latte; o chiuse dentro, o fuori, per le prata: come noi, che si molge all'aria aperta, nella statina, le serate lunghe: quando su l'Alpe c'è con noi la luna sola, che passa, e splende sui secchielli, e il poggio rende un odorin che accora». E disse il Quarra, un capo, uno che molto girò, portando santi e re sul capo, di là dei monti e del sonante mare: ora s'è fermo, e campa a campanello: «Lessi in un libro, ch'hanno contadini come noi; ma non come mezzaiuoli timidi sol del Santo pescatore, e che, d'ottobre, quando uno scasato cerca podere, a lui dice il fringuello: - Ce n'è, ce n'è, ce n'è, Francesco mio! - Quelli no, sono negri. Alla lor terra venne un lontano popolo guerriero, che il largo fiume valicò sul ponte. Fecero un ponte: l'uno chiappò l'altro per le gambe, e così tremolò sopra l'acqua una lunga tavola. Fu presa la munita città, presi i fanciulli, ch'or sono schiavi e fanno le faccende; e il vincitore campa a campanello». E qui la China, madre d'otto figli già sbozzolati, accoccò il filo al fuso, mise il fuso sul legoro, le tiglie si strusciò dalla bocca arida; e disse: «Io l'ho vedute, come fanno ai figli le madri, ossia le balie. Hanno figlioli quasi fasciati dentro un bozzolino. Lo sa la mamma che lì dentro è chiuso il lor begetto, ch'è cicchin cicchino, e dorme, e gli fa freddo e gli fa caldo. Lasciano all'altre le faccende, ed esse altro non fanno che portare il loro furigello ora all'ombra ed ora all'aspro, in collo, come noi; ch'è da vedere come via via lo tengono pulito, come lo fanno dolco con lo sputo; e infine con la bocca aprono il guscio, come a dire, le fasce; e il figliolino n'esce, che va da sé, ma gronchio gronchio». Così parlando, essi bevean l'arzillo vino, dell'anno. E mille madri in fuga correan pei muschi della scorza arsita, coi figli, e c'era d'ogni intorno il fuoco; e il fuoco le sorbiva con un breve crepito, né quel crepito giungeva al nostro udito, più che l'erme vette d'Appennino e le aguzze Alpi apuane, assise in cerchio, con l'aeree grotte intronate dal cupo urlo del vento, odano lo stridor d'un focherello ch'arde laggiù laggiù forse un villaggio con le sue selve; un punto, un punto rosso or sì or no. Né pur vedea la gente là, che moriva, i mostri dalla ferrea voce e le gigantesse filatrici: i mostri che reggean concavi laghi di sangue ardente, mentre le compagne con moto eterno, tra un fischiar di nembi, mordean le bigie nuvole del cielo. Ma non vedeva il popolo morente gli dei seduti intorno alla sua morte, fatti di lunga oscurità: vedeva, forse in cima all'immensa ombra del nulla, su, su, su, donde rimbombava il tuono della lor voce, nelle occhiute fronti, da un'aurora notturna illuminate, guizzare i lampi e scintillar le stelle. E lo Zi Meo parlò. Disse: «Formiche! L'altr'anno seminai l'erba lupina. Venne la pioggia: non ne nacque un filo. Vennero i soli: il campo parea sodo. Un giorno che v'andai, vidi sul ciglio del poggio un mucchiarello alto di chicchi. Guardai per tutto. Ad ogni poco c'era un mucchiarello. Erano i semi, i semi d'erba lupina. Avean rumato poco? Non un chicco, ch'è un chicco, era rimasto! Aveano fatto, le formiche, appietto! E ben sì che v'avevo anco passato l'erpice a molti denti, e su la staggia, per tutte bene pianeggiar le porche, mi facev'ir di qua di là, come uno fa, nel passaggio, in mezzo all'Oceàno».
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