Garibaldi in America.
I.
Torna
al Rio Grande col suo pro' compagno,
torna
il Filibustiere, ora a cavallo.
Prese
il cavallo nella mandra al laccio,
frenò,
sellò: lo domerà stradando.
Galoppa
dietro il cavalier selvaggio
tutto
con un cupo tumulto il branco:
falbe
giumente col puledro accanto,
stalloni
in corsa inalberati al salto.
Ed
egli, quando il suo cavallo è stanco,
getta
le frombe sibilanti a un altro;
lo frena
e sella e monta su fischiando.
Il
vento in mare gl'insegnò il suo canto.
I
mustang, le giumente e le puledre,
liberi
seguono il Filibustiere.
Sul
feltro suo beccheggiano due penne,
lunga
la chioma al vento si distende.
Ma
queta il passo ove la steppa è verde,
perché
i cavalli pascano le alte erbe,
perché
bevano chiaro le giumente
a
qualche stagno ombrato di ninfee.
Sembra
un pastore. E indugia perché vede
i
puledrini ancora alle mammelle.
L'armento
nell'oscurità s'aduna,
fa
un grande cerchio in mezzo alla pianura.
Le
teste l'una all'altra hanno congiunte:
sognano
insieme orecchio a orecchio, il puma,
l'uomo,
il jaguar: l'un dopo l'altro, sotto
l'ombra
stellata, rigna e scalcia al sogno.
E
l'uomo giace sulla terra nuda
e
guarda in cielo e naviga lassù.
Passa
tra grigie nebulose ed erra
tra
gruppi ignoti. Avvista Altair e Vega
che
riconosce. E sempre più s'inciela.
Da
stelle a stelle, è sopra la sua terra.
Dal
cielo azzurro grida Italia! Italia!
E
sbalza in piedi ad un nitrito. È l'alba.
Per
boschi e campi passa il cavaliere
tra
uno svolar di code e di criniere,
e
groppe mosse su e giù come onde,
e
ringhi acuti ed ansie fremebonde,
ed
urli e calci al vento e salti a sghembo,
e il
subito ampio rotolar d'un nembo.
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