I DUE IMPERATORI.
Oh!
ben temeano i popoli le scuri.
Ché
per il mondo si vedea passare
un
uomo grande più che l'uomo, un grande
che
dava a tutto, il freno o l'urto, ei solo,
della
sua mano. Egli partìa la terra
con
la sua spada e il cielo col suo lituo,
augure
circondato dalle rote
degli
avvoltoi. Lanciava egli all'assalto
con
un suo cenno l'aquile, e le lievi
turme
al galoppo, e l'ululo di morte
ravvolto
nella polvere veloce.
Eppur
mostrava placido alle genti
placate
il volto, e calmo i cavalloni,
ancora
irati dopo la tempesta,
con
quella mano che impugnò la spada,
calmava,
e dal belligero cavallo
dicea
le leggi e l'arti della pace.
Salve,
o possente Roma! Tu le terre
hai
dissodate col tuo duro coltro;
la
macchia hai franta perché desse il grano
placido.
Il grande
imperio era il tuo fato.
Quando
a te fu dagli ampi omeri tolta
la
porpora, ecco il re de' sacrifizi
uscì
da templi novi e da miti are.
E
poi levò di terra la corona
e ne
cinse la lunga chioma bionda
d'un
re che aveva la fràmea per lancia;
e
poi, volgendo i secoli, battaglia
mosse,
egli re dei riti, al re dell'armi.
E
tempo venne che dall'alto soglio,
con
la corona sulla fronte eretta,
con
nella mano la stellante spada
(stettero
i messi attoniti nell'aula,
e
reprimeano i secoli la corsa
infrenabile,
come visto un cenno
rapido
di far sosta e di dar volta),
«Che
domandate?» addimandò. «Ciò ch'egli,
il
vostro re, domanda, è mio. Son io
il
Cesare, son io l'Imperatore!
Andate!»
E il re sacrìfico si prese
i
fasci albani; e l'ara vide al lume
dei
sacri ceri scintillar le scuri.
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