LE FAVISSE.
Intanto,
quali in una torba sera
fuggon
le nubi d'ogni parte e vanno,
gemendo,
spinte qua e là dai venti,
tali
gli dei cacciati dai lor templi
empìan
notturni il cielo di querele.
E di
quei templi l'umide cisterne,
sin
le favisse sotto il Campidoglio,
fervean
d'un cupo murmure. Ché i molti
idoli
sacri, l'uno dopo l'altro,
vi
discendeano. E Venere, la vita,
vedea
la prima volta ora i vetusti
lupi
e cignali, e là pur mo' gettata
schifìa
Minerva i rozzi cippi e il vano
dio,
ch'era un legno putrido, ed ansante
non
ravvisava, nel Mamurio irsuto,
Marte
sé stesso. E scese alfin dal sommo
dell'arce,
dietro gli altri dei consenti,
Giove
pieno di nubi il sopracciglio.
«O
già potenti in cielo, sulla terra,
nel
mondo oscuro: fummo. Noi cacciammo
altri
dal soglio, ed altri noi discaccia.
Ma
non è vano l'aspettar vicenda.
Quel
dio rifatto, a cui cedemmo contro
cuore,
fuggiasco, povero, deforme,
il
cui soglio è la croce, ed il cui serto
sono
le spine dei roveti...» Ed altro
egli
diceva, ma seguì con voce
piena
d'orrore la Carmenta antica
vaticinante,
a nessun dio più nota,
svanì
lasciando gli edifici soli,
già
balenanti, già meditabondi
tra
sé e sé, del crollo ultimo, e Roma,
Roma,
sotto il suo sole almo, deserta.
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