II.
Quale
eri tu? Non l'ITALO tu forse
che
per la grande terra della sera
trasse
un fatale popolo, e la corse
tutta
col nome che tuttor non era?
Fuggìano,
andando, le paludi oscure
tinte
d'un lividore di tramonti;
fuggìan
le macchie vergini di scure
e il
fuoco acceso notte e dì sui monti.
Sospesi,
se temere, se sperare,
tendean
l'orecchio ad altri gridi umani;
ma
non s'udiva che scrosciare il mare
e
rintronare lava di vulcani.
Emergeano
cavalli-d'-acqua a torme,
spruzzando
pioggia dalle froge grosse.
Volgeano
i piccoli occhi e il muso enorme,
chiedendo
a sé, quella tribù, che fosse.
Fendeva
i boschi un calpestìo selvaggio
ed
un fragor di grandi alberi infranti.
Pareva
un cieco nembo; era il passaggio,
là,
di rinoceronti e d'elefanti.
E
quando a notte era sparita, avvolta
d'aride
foglie la raminga gente,
a
prender sonno, tutta notte in volta
andava
l'ombra del leon ruggente.
Ma
sempre tu, senza guardarti attorno,
guidavi,
o Toro, i tuoi Taurini erranti,
allor
che i piè, sempre più lenti, un giorno
fermasti.
T'era una palude avanti:
una
palude gialla che tra l'ulva
lasciava
sette cime già scoperte
di
colli. La rapace aquila fulva
gridava
all'acqua che stagnava inerte.
Ma
nubi nere e sfavillìo di lava
uscian
di notte dalle verte nude
dei
monti, intorno, e sempre sussultava
la
terra e balenava la palude.
Era
lontana l'augurale aurora,
che
s'aspettava. E tu, col tuo profondo
muglio,
colei ch'era nascosta ancora
dall'acqua
ed alga, la chiamavi al mondo.
Dopo
gran tempo era per balzar fuori
Roma,
nei dì che da te spunta il sole,
Toro
che spargi sulla terra i fiori
e in
ciel t'impenni tra le stelle sole.
Roma
era allora cinta dalla dia
vigile
Terra. Tardo, a poco a poco,
continuasti,
o Toro, la tua via,
volgendo
al tuono il capo, spesso, e al fuoco.
Tutta
così la terra senza nome
varcasti
lungo il risonante mare
passando
fiumi e valli oscure; e come
fosti
alla fine del fatale andare;
la
Primavera Sacra che dai solchi
natii
fu data ai venti e alle venture,
il tuo
ramingo popolo, i bifolchi,
ITALO,
tuoi, levando l'aste pure,
dissero:
Italia! Vollero che il breve
lido
del mare fosse Italia, fosse
di
te. L'Etna alitava, tra la neve,
nuvole,
ver' la verde Italia, rosse.
Poi
dove il Sole ha i pascoli, tu insieme
ai
tuoi Taurisci a nuoto un dì passavi.
Ma
sopravenne dalle prode estreme
l'Eroe
più dio che gl'Immortali ignavi.
«Indietro!»
disse, e tese l'arco. Indietro
volgesti
allor, parando le tue torme,
girando
spesso attorno gli occhi tetro,
ponendo
i piedi sulle tue grandi orme.
Passando,
quella ch'era un dì palude,
vedesti
arare e seminar già doma.
Era
un pastore dalle membra nude
che
seminava l'avvenir di Roma.
Aveva
atteso te, la primavera
tua,
la ma stella. Anche di lì cacciato,
spingevi
innanzi la tribù tua fiera,
volgendo
il capo, ed obbedendo al fato.
T'era
alle spalle, simigliante a notte
oscura,
te seguendo sempre al varco,
una
grande ombra in mezzo a nubi rotte,
l'ombra
di lui, con nudo e teso l'arco.
Ma
tu posasti, dove due fiumane
angolo
fanno, certo del destino.
Si
sparse intorno per capanne e tane
il
tuo tenace popolo Taurino.
Appiè
dell'Alpi t'accostasti come
sopra
una soglia. Il tuo viaggio vano
pensavi
e il lido cui tu desti il nome,
e
l'avvenire, grande, alto, lontano.
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