II.
La
nera Terra lo attendea, tremando
già
del portento. Ora credé vederlo
uscir
col capo di sparvier da templi
invasi
d'ombra e di pensose sfingi,
ora
passar con mille carri d'oro
con
suvvi gli archi di barbari arcieri,
ora
con infiniti dromedari
rigar
le solitudini sabbiose
fulve
di sole, ora venir tra un muglio
di
bovi immenso, qual se al mondo un solo
gran
mandriano ormai parasse tutti
gli
armenti e tutti gli armentari.
Non
era ancora. O forse era il divino
efebo
cinto d'ellera che apparve
novello
eroe con la peliade lancia,
or
con la cetra or con la face in mano.
E
no. Forse il Quirite era incedente
al
misurato passo dei triari,
e
poi sedente sull'eburnea sella
imperïoso
pacificatore.
Ma
no. Non era il re chiomato assiso
appiè
dell'olmo, l'orifiamma al vento,
e
giganteschi attorno con le spade
ignude
i dodici suoi pari.
Ma
quando uscì dall'isola selvaggia
piccolo,
e parve scialbo e glabro in sella;
con
gli occhi vuoti, vitrei, coi lunghi
capelli
lisci, simile a nessuno;
ed
ella udì che ad ogni sosta ansante
del suo
cavallo rimbombava il tuono:
-
Sei tu - gridò la nera Terra - alfine!
Dimmi
il tuo nome! - Ed ella intese il nome
dove
la fiera si mesceva al dio,
donde
sonava l'inno dell'eterna
cetra
del cielo puro ed il ruggito
della
deserta immensità.
|