III.
Ora
egli è avvinto all'isola lontana
che
sola spunta di tra le grandi acque;
che,
sola tra la serenità calma,
è di
perpetue nuvole involuta;
come
se imperversasse una tempesta
là,
vorticosa, interminabilmente;
una
tempesta pallida e segreta,
incominciata
all'albeggiar del mondo.
Tutte
le nubi erranti per quel cielo
dagli
alisei sono parate, a branchi,
là,
con assidui sibili, e son chiuse
tra
mura d'invarcabile aria.
Sbalzano
su, rotolano le nubi,
s'urtano,
vanno per fuggir dal chiuso,
calano
per vanire entro i burroni,
s'alzano
per oltrepassar li scogli,
strisciano
a terra: invano, perché il vento
pur
le riprende; e, reduci, le vane
lagrime
loro versano sul caldo
suolo
che fuma. Tornano alle nubi
le
loro vane lagrime, che ancora
piovono
in terra. E sempre in volta il vento
con
lunghi assidui sibili minaccia
nella
penombra solitaria.
È
l'invisibile isola dei morti,
tutta
fiorita d'aridi elicrisi.
Né
luce v'è né buio. Una muffita
nebbia
nasconde il popolo dei sogni.
Vi
sono sterili alberi, curvati
come
a fuggire; ma li tiene il suolo
disvincolanti.
Fuggono le navi
a
vele aperte, tutte per un rombo.
L'hanno
veduto. Tra lo stridìo lieve,
come
d'uccelli, delle pallide ombre,
volgendo
gli occhi in giro, il suo fantasma,
nel
mezzo, nudo l'arco, sta.
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