VI.
L'anima
egli era, e tutto il mondo, il bruto.
Soltanto
braccia egli chiedeva, e l'ebbe.
Fu
come il Brahma, a cui sporgean dai lati
mille
migliaia di guizzanti braccia,
mille,
di mani, ognuna d'esse un ferro.
Né
città v'era né deserto al mondo,
né
tempio augusto, né sublime reggia,
né
foro né castello né ruina;
o
dove nasce o dove cade il sole,
a
sud, a nord; sopra la cui parete
non
apparisse; alfine un giorno, l'ombra
adunca
d'una sua gran mano.
Egli
era dio d'un proprio suo diviso
regno
di dio. Per tutto egli era, e tutto.
Ne
ripeteva, paventando, il nome
l'eco
dei monti e la marea dei mari.
Empiano
i suoi migranti padiglioni
le
nivee steppe e le assolate arene.
Gittava
al Tutto egli le braccia armate,
calmo,
dal perno, e tra lo scatto enorme,
tra
l'infinito riscintillamento
delle
sue braccia, si vedea quel mezzo
Sorriso
breve cui covava eterna
la
sua tristezza di Titano.
Ed
egli volle un vicedio ch'eterno,
per
il dio triste, sorridesse al mondo.
Volle,
e compose un idolo fasciato
di
bianca seta, rilucente d'oro,
aspro
di gemme, gli occhi pii, le labbra
sottili,
aperte sempre al dolce assenso.
E lo
vegliava, ché dovea placare
gli
uomini a Dio, con la gemmata mano
benedicente,
e gli uomini pregare
per
l'immortale. Ond'egli cupo in vista
mostrava
il placido idolo alle torve
inginocchiate
sue tribù.
|