VII.
Altri
al timone siedono del mondo.
Son
mozze alfine le sue mille e mille
e
mille braccia, e guizzano per tutto,
cadute
a terra, le convulse mani
cercando
il ferro. Egli nell'aria fosca
leva,
stillanti sangue, i moncherini.
È
chiuso là nell'isola deserta
tra
le grandi acque, che l'attendamento
de'
re terrestri il suo dolor non turbi
con
l'alte grida. Sullo scoglio assiso
forse
nel mar tuffa le braccia, e lava
le
innumerabili ferite.
Credono
i re di udire la selvaggia
querela
atroce, l'aspro grido acuto
ch'egli
dal lido getti alle fuggiasche
vele
atterrite. No; ch'ei tace, o parla
soltanto
a smerghi ed aquile marine.
Ei
siede e tace, mentre sull'Oceano
purpureggiante
le sue braccia affonda.
Tace
ed assiduo, tra la nebbia, lava
il
sangue inesauribile che sgorga
dai
milïoni delle braccia, il sangue
che
sgorga dalla pallida sua vita,
di
milïoni d'altre vite.
Non
è fragore ondoso di risacca
alla
scogliera, non è vento urlante
nei
boschi morti, non tempesta in mare
che
l'isola urti, e sciacqui nell'abisso.
È
lui che sparge sopra sé l'immenso
Oceano
rosso, per lavare il sangue.
A
grandi ondate abbraccia il mare, e tutto
l'attira
a sé. Cupo silenzio è intorno.
Là,
nell'oscurità caliginosa,
vedono
l'ombra del ferito immane
i
brevi re, tremando ancor dell'uomo
ch'è
tutto ancora, e non è più.
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