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Giovanni Pascoli Poemi del Risorgimento IntraText CT - Lettura del testo |
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LE FAVISSE.
Intanto, quali in una torba sera fuggon le nubi d'ogni parte e vanno, gemendo, spinte qua e là dai venti, tali gli dei cacciati dai lor templi empìan notturni il cielo di querele. E di quei templi l'umide cisterne, sin le favisse sotto il Campidoglio, fervean d'un cupo murmure. Ché i molti idoli sacri, l'uno dopo l'altro, vi discendeano. E Venere, la vita, vedea la prima volta ora i vetusti lupi e cignali, e là pur mo' gettata schifìa Minerva i rozzi cippi e il vano dio, ch'era un legno putrido, ed ansante non ravvisava, nel Mamurio irsuto, Marte sé stesso. E scese alfin dal sommo dell'arce, dietro gli altri dei consenti, Giove pieno di nubi il sopracciglio. «O già potenti in cielo, sulla terra, nel mondo oscuro: fummo. Noi cacciammo altri dal soglio, ed altri noi discaccia. Ma non è vano l'aspettar vicenda. Quel dio rifatto, a cui cedemmo contro cuore, fuggiasco, povero, deforme, il cui soglio è la croce, ed il cui serto sono le spine dei roveti...» Ed altro egli diceva, ma seguì con voce piena d'orrore la Carmenta antica vaticinante, a nessun dio più nota, svanì lasciando gli edifici soli, già balenanti, già meditabondi tra sé e sé, del crollo ultimo, e Roma, Roma, sotto il suo sole almo, deserta.
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