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Giovanni Pascoli
Poemi del Risorgimento

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  • Inno a Torino.
      • II.
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II.

 

Quale eri tu? Non l'ITALO tu forse

che per la grande terra della sera

trasse un fatale popolo, e la corse

tutta col nome che tuttor non era?

 

Fuggìano, andando, le paludi oscure

tinte d'un lividore di tramonti;

fuggìan le macchie vergini di scure

e il fuoco acceso notte e dì sui monti.

 

Sospesi, se temere, se sperare,

tendean l'orecchio ad altri gridi umani;

ma non s'udiva che scrosciare il mare

e rintronare lava di vulcani.

 

Emergeano cavalli-d'-acqua a torme,

spruzzando pioggia dalle froge grosse.

Volgeano i piccoli occhi e il muso enorme,

chiedendo a sé, quella tribù, che fosse.

 

Fendeva i boschi un calpestìo selvaggio

ed un fragor di grandi alberi infranti.

Pareva un cieco nembo; era il passaggio,

là, di rinoceronti e d'elefanti.

 

E quando a notte era sparita, avvolta

d'aride foglie la raminga gente,

a prender sonno, tutta notte in volta

andava l'ombra del leon ruggente.

 

Ma sempre tu, senza guardarti attorno,

guidavi, o Toro, i tuoi Taurini erranti,

allor che i piè, sempre più lenti, un giorno

fermasti. T'era una palude avanti:

 

una palude gialla che tra l'ulva

lasciava sette cime già scoperte

di colli. La rapace aquila fulva

gridava all'acqua che stagnava inerte.

 

Ma nubi nere e sfavillìo di lava

uscian di notte dalle verte nude

dei monti, intorno, e sempre sussultava

la terra e balenava la palude.

 

Era lontana l'augurale aurora,

che s'aspettava. E tu, col tuo profondo

muglio, colei ch'era nascosta ancora

dall'acqua ed alga, la chiamavi al mondo.

 

Dopo gran tempo era per balzar fuori

Roma, nei dì che da te spunta il sole,

Toro che spargi sulla terra i fiori

e in ciel t'impenni tra le stelle sole.

 

Roma era allora cinta dalla dia

vigile Terra. Tardo, a poco a poco,

continuasti, o Toro, la tua via,

volgendo al tuono il capo, spesso, e al fuoco.

 

Tutta così la terra senza nome

varcasti lungo il risonante mare

passando fiumi e valli oscure; e come

fosti alla fine del fatale andare;

 

la Primavera Sacra che dai solchi

natii fu data ai venti e alle venture,

il tuo ramingo popolo, i bifolchi,

ITALO, tuoi, levando l'aste pure,

 

dissero: Italia! Vollero che il breve

lido del mare fosse Italia, fosse

di te. L'Etna alitava, tra la neve,

nuvole, ver' la verde Italia, rosse.

 

Poi dove il Sole ha i pascoli, tu insieme

ai tuoi Taurisci a nuoto un dì passavi.

Ma sopravenne dalle prode estreme

l'Eroe più dio che gl'Immortali ignavi.

 

«Indietro!» disse, e tese l'arco. Indietro

volgesti allor, parando le tue torme,

girando spesso attorno gli occhi tetro,

ponendo i piedi sulle tue grandi orme.

 

Passando, quella ch'era un dì palude,

vedesti arare e seminar già doma.

Era un pastore dalle membra nude

che seminava l'avvenir di Roma.

 

Aveva atteso te, la primavera

tua, la ma stella. Anche di lì cacciato,

spingevi innanzi la tribù tua fiera,

volgendo il capo, ed obbedendo al fato.

 

T'era alle spalle, simigliante a notte

oscura, te seguendo sempre al varco,

una grande ombra in mezzo a nubi rotte,

l'ombra di lui, con nudo e teso l'arco.

 

Ma tu posasti, dove due fiumane

angolo fanno, certo del destino.

Si sparse intorno per capanne e tane

il tuo tenace popolo Taurino.

 

Appiè dell'Alpi t'accostasti come

sopra una soglia. Il tuo viaggio vano

pensavi e il lido cui tu desti il nome,

e l'avvenire, grande, alto, lontano.

 




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