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Giovanni Pascoli Poemi del Risorgimento IntraText CT - Lettura del testo |
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IV.Taurina gente, sacra sin dagli anni primi all'Italia, o fuochi accesi in vetta delle bianche Alpi, o saldi cuori e forti, o guardie eterne poste a vigilare l'estrema, immensa, ardua trincèa di Roma! L'avea, la forza del maggior nemico, varcata già la cerchia di granito, le avea forzate l'ultime muraglie sacre d'Italia e della sacra Roma. Veniva già col vento e la tempesta, invisibile in mezzo alla tormenta. Sul capo suo cadeva franto il cielo che nascondea nel polverìo le turbe. Per cime e valli andava, e il suo cammino dalle macerie era, del cielo, ingombro. Ma egli andava, come in un gran sogno, sempre, non mai volgendo gli occhi, avanti. Intorno a lui sonava il faticoso nitrito de' cavalli, a cui le sabbie, auree nel caldo anelito del sole, rideano al cuore; avvezze a pascolare sotto le paime, le turrite mandre barcollanti incedean degli elefanti. Alle sue spalle, un fragor grande, crolli, fuga, tumulto, e scrosci di foreste schiantate e grosso crepitar di fiamme. Era un serpente enorme che con torve spire seguiva, e i culti campi larga- mente prostrava e sradicava i boschi e con la coda distruggea le intere città; che tutto con la bocca ardente dava alle fiamme, insieme, ed alla morte. Era la vïolenta idra straniera, la sventura d'Italia, che d'allora avrebbe osato rompere i confini sacri, in eterno, e sulla devastata terra l'immane corpo arrotolare e covar sopra ceneri di messi e sopra roghi di città distrutte. Allora in prima il mal serpente infranse, per farsi via, le rupi ond'è costrutto, insino al cielo, il Termine d'Italia; Termine immenso che da mare a mare, col fondamento nel lor fondo, incurva sé stesso e sembra, a Dio caduto, un arco. Allora in prima con le spade in mano guizzanti, voi sbalzaste su, Taurini, e sulla soglia della patria terra gettaste il sangue, sin d'allor col sangue segnando il patto con il vostro fato. Ma voi vedeste chi, le italiche Alpi, da questa Italia le ascendea Romano; ma voi vedeste poi le italiche armi oltre i confini propagar la pace del giusto Lazio. In mezzo a voi, Taurini, come nel marmo in cui la vita scorra, Cesare apparve. Nel paludamento imperïale ei conducea l'Alauda fulva le chiome: intorno a lui le scuri nei fasci, e i pili della sua coorte. Oppur liete parole egli intrecciava coi fidi amici, o nella molle cera solchi imprimea col vomere, gittando in quella il seme del suo gran pensiero. Ora i fasti romani, ora le guerre per terra e mare, e il mondo vinto, e, in mezzo ai suoi trionfi e alla sua pace, Roma; or meditava arguti versi e dolci esili carmi, e si beava il cuore. Qui mentre un dì cadea la neve a fiocchi, dicono, entrò nella capanna trista d'un re selvaggio. Largo il re, di latte giovò gl'ignoti, e loro appose i frusti d'uno stambecco. E la coorte in tanto motti avventava contro il re dei monti, gran cacciatore, e l'un mostrava all'altro quel re seduto sulla panca al fuoco, rugoso in fronte ed accigliato. Ed uno disse: «E' mi pare il dio Cernunno, il dio della ricchezza, con le corna in capo.» Cesare, grave, disse allora: «Io primo sia qui piuttosto che secondo in Roma!» Regolo alpino, tu balzasti allora, a un tratto, su, dalla massiccia panca. Di nera luce ardevano al Romano gli occhi mortali; dalle tue pupille, splendeano ignude due cerulee spade. Nel focolare arse più chiaro il fuoco, vampeggiò, crepitò, fece faville. E per le forre, con un'eco arcana dell'infinito, a lungo mugliò una raffica, come se parlasse il Tempo. Allora avanti Cesare quel Gallo, irto di peli il labbro, stette, e parve grande del pari, ed esclamò: «L'augurio accetto. Viva io qui tranquillo e pago di questo regno povero, cacciando i cervi, errando pei selvaggi monti, fin ch'io non possa essere il primo in Roma!» Risero tutti, sì, ma la lontana posterità ventò sulla coorte, quasi alitando i secoli futuri. Cesare quindi una città di guerra fece ai Taurini, e la munì di vallo, e di due torri ornò le porte, e, cauto dell'avvenire, i veterani astati pose in questo romano accampamento, forti coi forti. E la quadrangolare città nel suolo si piantò, sicura per le sue pietre e più per i suoi cuori. A destra poi, per una grande porta, badava ad ogni voce, ad ogni suono, se udisse mai venire le coorti, se un clangor, lungi, si levasse al vento, frangesse il vento uno squillar di trombe, la via strepesse al duro cuoio e ai chiodi della legione, e Roma ritornasse: o se, di tra gli stipiti rimasti l'eterna fuga a contemplar degli anni, s'avesse alfine a ritornare a Roma. Fuggiva il tempo, e l'acqua dei due fiumi fuggiva anch'ella, in grande oblìo di tutto. Dalle sue porte la città spiava i quattro venti, rivolgendo a un tratto l'attento orecchio ognor dall'Alpi a Roma. Ecco luccicar d'armi ampio e di schiere. Ferro era tutto, che copria cavalli e cavalieri, e tutto il piano era aspro come di fulva ruggine di ferro. - Romani voi? Partiti sì da Roma, ma non Romani. Dove i pili e i valli? Che v'appiattate sotto il fosco ferro? - Ed altre schiere ecco venir dall'Alpi traboccando dall'alto arco dell'ampia porta d'Italia. Per il ciel sereno in faccia ad essi era una bianca croce. Stupore ebbe le genti, e il condottiere - Prendi l'insegna della tua vittoria! - udì. Vinsero in vero, e le lor brevi spade la via trovarono del sangue sotto le squamme, in mezzo al vostro cielo restò, Taurini, quella bianca croce, ora lucente nell'azzurro, ed ora scialba, e da un triste nimbo incoronata; finché quel segno fu dalla vittoria ripreso in mano, quando, o Italia, forte martire, Italia, delle genti, orlavi, recando in alto la tua verde palma, la veste bianca di purpureo sangue. E Roma intanto dalle sette cime era crollata, e dell'Esperia guasta da ferro e fuoco, nulla più che l'ombra era, del nome. E tempo corse, e il nome anche svanì, come in un rogo immenso ultima brilla e muore una favilla. Duca era allora dei Taurini un uomo di quei barbari, che nemici a Roma avea la biondeggiante Elba mandati. Il duca era partito per le liete nozze del re, per le fiorenti mense. Appena giunto era nell'aula: un tuono rimbombò, subito, ed un lampo insieme illuminò per l'aula le criniere fulve e le barbe e le dense aste e l'azze razzanti, e il re. Li scosse e impietrò tutti, ed il palagio con un lungo rombo scrollò. - Del re breve la vita e il regno! Duca Agilulf, diremo noi tra breve te re. - Queste parole e' le nascose nel cuore, il duca, e ne ronzava il cuore profondo. Ma non volsero molti anni: furono vere. Né, concordi, a grida sonore i duchi porsero a lui l'asta, a lui dicendo di regnar su loro; ma la regina fu che il regno e un colmo calice, prima a fior di labbro attinto, offerse a lui di rosso italo puro vino, e gli disse: «Generose genti come codesto vino vendemmiato, Re Agilulf, su colli che il sole ama, tu reggerai; ma l'arte dell'impero è presso loro, e tu da lor l'apprendi.» Fecero quindi un tempio. Era, sull'alba dei secoli, uno errante nel deserto. «Fate le vie» gridava, «e le spargete di palme: l'Aspettato è per venire!» Fecero a lui di marmo un tempio, e dono posero, in esso una corona d'oro fulgida, cui cingesse l'aspettato, il re d'Italia ch'era omai per via. Ma l'oro puro intorno inanellato era di ferro, che già ferreo chiodo fu della croce. - Oh! come tutto è vero! Ma lo vedranno i secoli lontani. Vero! Alla croce sarà reso il chiodo! Vero! Al sovrano de' Taurini resa sarà l'aurea corona. Egli su tutta l'Italia re dominerà. L'Italia renderà questi agli Itali e al destino. Ma dopo lunghi secoli con molto purpureo sangue, ma con fuoco e ferro! - Allor col ferro impresero i Taurini a perigliar la cara vita, e sempre alla futura patria addimostrarsi, in disventura ed in povertà, forti. E sì pareano immemori del fato e pur del nome e dei costumi antichi e del linguaggio che fu già di Roma. Né più le genti capo avean: l'augusta città fatta straniera: e valli e monti dell'armi ostili eran per tutto ingombri. E tramontata era la sacra insegna, né v'era alcuno che levarla al cielo potesse ancora: Donno era lontano; esilïato Donno era dalle Alpi. Presso i due fiumi, come corpo morto, come travolto da una gran valanga, Toro progenitore, eri prostrato: quando, Testa di ferro, tutto ferro, alto levando, come alfier, la spada, puntando ai fianchi del destrier gli sproni, egli tornò. Tornava dall'esilio: dalla vittoria. E il popolo Taurino gridò: «Già viene! Ecco il signor con noi! Vero il tuo nome dice Emanuele!» Egli ristette e il suo cavallo immane fermò, trasse le redini, e nascose nella guaina la sua grande spada. Non fosti tu, tu stesso, che, tre volte volti cent'anni, la levasti al sole? Grida di morte, grida di dolore, in ogni tempo, d'ogni parte, al cuore giungeano ardenti. Quel rapace drago strisciava per la terra della sera, tutto abbattendo, e il popolo le ingiuste verghe provava e le superbe scuri dei re tiranni. Sì, ma tu le udisti quelle infinite grida di dolore, la grande spada tu, d'un dì, snudasti, la croce bianca tu, d'un dì, levasti. Oltra Ticino, sommovesti all'armi tutte le genti e le guidasti a guerra ch'è santa e pia, se libera e redime. Poi col tuo nome mille eroi due navi salgono, e vanno all'isola che porta chiare di dei, di semidei, le traccie. Rossa la veste dei remigatori divini; capo era il divino Ulisse. E tu combatti ancora e sempre. Alfine re dell'Italia tutta imponi al capo il ferro e l'oro della sua corona. La croce alfine segno di vittoria, splendé dal cielo sulla terra verde ch'ha neve al sommo e che nel fondo ha fuoco. Ed a nessuno e in nulla mai secondo, piccolo alpino re selvaggio, a Roma stai grande, e resti eternamente a Roma.
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