Dicean,
Dormi, al nocchiero, Ara, al villano,
di
su le nubi, le raminghe gru.
Ara:
la stanga dell'aratro al giogo
lega
dei bovi; ché tu n'hai, ben d'erbe
sazi,
in capanna, o figlio di Laerte.
Fatti
col cuoio d'un di loro, ucciso,
un
paio d'uose, che difenda il freddo,
ma
prima il dentro addenserai di feltro;
e
cucirai coi tendini del bove
pelli
de' primi nati dalle capre,
che
a te dall'acqua parino le spalle;
e su
la testa ti porrai la testa
d'un
vecchio lupo, che ti scaldi, e i denti
bianchi
digrigni tra il nevischio e i venti.
Arare
il campo, non il mare, è tempo,
da
che nel cielo non si fa vedere
più
quel branchetto delle sette stelle.
Sessanta
giorni dopo volto il sole,
quando
ritorni il conduttor del Carro,
allor
dolce è la brezza, il mare è calmo;
brilla
Boote a sera, e sul mattino
tornata
già la rondine cinguetta,
che
il mare è calmo e che dolce è la brezza.
La
brezza chiama a sé la vela, il mare
chiama
a sé il remo; e resta qua canoro
il
cuculo a parlare al vignaiolo.
Questo
era canto che mordeva il cuore
a
chi non bovi e sol avea l'aratro;
ch'egli
ha bel dire, Prestami il tuo paro!
Son
le faccende, ed ora ogni bifolco
semina,
e poi, sicuro della fame,
ode
venti fischiare, acque scrosciare,
ilare.
E intanto esse, le gru, moveano
verso
l'Oceano, a guerra, in righe lunghe,
empiendo
il cielo d'un clangor di trombe.
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