IL POETA DEGLI ILOTI.
Figlio
di Dio, molto giocondo in cuore
prendesti
terra in Aulide pietrosa!
Tornavi
tu dal suolo degli Abanti
ricco
di vigne, dalla popolata
di
belle donne Calcide; né prima
d'allora
avevi traversato il mare.
Ma
il largo mare traversasti allora;
ché
il re, più re degli uomini mortali,
era
là morto, ed una gara indetta
e di
lotte e di corse era, e di canto.
E tu
nel canto ogni cantor vincesti,
anche
il vecchio di Chio cieco e divino,
col
tuo ben congegnato inno di guerra.
Ed
ora sceso dalla nera nave
movevi
ad Ascra, assai giocondo in cuore;
ché
per la via ti camminava a paro
un
curvo schiavo, che reggea sul dorso
il
premio illustre: un tripode di bronzo.
Ché
l'orecchiuto tripode di bronzo
gravava
in prima al buon Ascreo le spalle;
e
prima l'una, e l'altra poi; ché grave
era,
di bronzo; e poi l'avea, per l'anse,
sospeso
al ramo ch'era suo, d'alloro;
e lo
portava: ma venuto a un grande
platano,
donde chiara acqua sgorgava,
sostò,
già stanco. Ed era quello il fonte
dove
il segno gli Achei videro, d'otto
passeri
implumi, e nove con la madre.
E di
passeri il platano sul fonte
garriva
ancora, e il buon Ascreo li udiva,
pensando
in cuore un nuovo inno di guerra.
E
riprendeva già la via, col caro
tripode,
in dosso, che brillava al sole,
quando
sorvenne un viator che bevve;
e
seguitò. Ma poco dopo «O vecchio.»
disse,
«ch'io porti il tuo laveggio: è peso.»
E
tolse prima il tripode, che l'altro
gli
rispondesse: dopo, gli rispose:
«Grave
era, è grave. Ed anche tu sei vecchio.»
«Ma
sono schiavo» gli rispose il vecchio:
«schiavo;
e dal monte Citerone io venni
menando
al mare, ad una curva nave,
due
bei vitelli, nati schiavi anch'essi.
Torno
al padrone. Ma tu dove, o babbo?»
«Ad
Ascra: ad Ascra, misero villaggio,
tristo
al freddo, aspro al caldo, e non mai buono.»
E
non addimandato altro gli disse:
«Venni
per mare, ad Aulide: ho passato
l'Euripo.
Indetta a Calcide una gara
e di
lotte e di corse era, e di canto.
Vinsi
codesto tripode di bronzo
cantando
gesta degli eroi...» «Sei dunque
rapsodo
errante, e sai le false cose
far
come vere, ma non dir le vere.»
Non
rispondeva il vecchio Ascreo, ché tutto
era
in pensar le mille navi in porto,
mentre
sul curvo lido la procella
scotea
le chiome degli Achei chiomanti.
E il
sole era già caldo, e la campagna
fervea
di mugli. Ché la pioggia a lungo
nei
dì passati avea temprato il suolo,
e i
contadini aravano le salde,
ed
era tempo d'affidar le fave
ai
solchi neri, e la lenticchia ai rossi.
E
nudo un uomo traea giù da un carro,
presso
la strada, con un suo ronciglio,
il
pingue concio. E il buon Ascreo ne torse
il
volto offeso. Ma lo schiavo curvo
sotto
il ben fatto tripode di bronzo,
disse
gioia a quel nudo uomo, e quel concio
lodò,
maturo. E brontolò stradando:
«Ben
fa, chi fa. Sol chi non fa, fa male.»
Ed
era presso mezzodì, né casa
ora
appariva, a cui cercare un dono
piccolo
e caro. Ché tra rupi e cespi
di
stipe in fiore essi ripìano, muti.
Taceva
anche la lodola dal ciuffo;
anche
il cantore. Egli tacea per l'astio
ch'altri
tacesse. Ma lo schiavo andando
volgea
lo sguardo alle inamene roccie.
E
disse alfine: «Ecco!» E mostrò la roccia
verde,
in un punto, per nascente ontano.
«C'è
tutto, al mondo, ma nascosto è tutto.
Prima,
cercare, e poi convien raspare.»
Egli
depose il tripode di bronzo,
raspò,
rinvenne un sottil filo d'acqua.
Poi
dal laveggio che brillava al sole
un
pane trasse, che v'avea deposto,
e lo
partì col buon Ascreo, dicendo:
«So
ch'è più grande la metà che il tutto.»
Finito,
prima che la fame, il cibo,
mossero
ancora per la via rupestre
che
già scendeva. Ed ecco che lo schiavo
guardando
attorno vide una bolgetta
in
un cespuglio. E presala, vi scòrse
splendere
dentro due talenti d'oro.
E
guardò giù per il sentiero, e scòrse
lontan
lontano cavalcare un uomo.
E
disse: «Padre, per un po' sul dorso
reggimi
il grave tripode di bronzo,
ché
n'avrei briga nel veloce corso.»
E
corse, e giunse al cavalier, cui rese,
poi
ch'egli suo glielo giurò, quell'oro.
Poi,
trafelato, il buon Ascreo sorvenne.
«Facile
t'era aver per te quell'oro!»
disse
allo schiavo. E mormorò lo schiavo:
«Facile,
sì: c'è poca strada al male.
Il
male, o padre, è nostro casigliano.»
Così
parlando andavano, e la strada
era
già piana, e si vedean tuguri
di
contadini ed ammuffiti borghi.
E
lor giungea da tempo uno schiamazzo
di
voci, come un abbaiar di cani
lontani.
E sempre lor venìa più presso.
Erano
gente che in un trivio aperto
rissavano
con voci aspre di cani.
E
alcun di loro già brandìa la zappa,
poi
che l'irosa voce era già rauca;
quando
lo schiavo nel buon punto accorse,
deposto
in terra il tripode di bronzo;
e
tenne l'uno e sgridò l'altro, e disse:
«Pace!
È la pace che ralleva i bimbi.
Sono
i pesci dell'acque, e son le fiere
dei
boschi, e sono gli avvoltoi dell'aria,
ch'hanno
per legge di mangiar l'un l'altro.
Gli
uomini, no, ché la lor legge è il bene.»
E quelli
ognun tornava all'intermessa
opera,
in pace. E i bovi sotto il giogo
rivedeano
il lor uomo con un muglio,
compiendo
il solco al suon della sua voce
ch'era
arrochita: e le ricurve zappe
sfacean
le zolle seppellendo il seme.
E lo
schiavo riprese sopra il dorso
l'aspro
di segni tripode di bronzo,
e
riprendendo la sua via diceva
ad
un rubesto giovane: «Lavora,
o
gran fanciullo, se la terra e il cielo
t'amino,
amando essi chi lor somiglia!
Ché
la nube carreggia, con un cupo
brontolìo,
l'acqua; e da lontano, ansando
il
vento viene; e infaticato il sole
torna
ogni giorno. Ma la terra è tarda,
madre
che fece tanti figli, e tutti
li
ebbe alla poppa. O dàlle ora una mano!»
E lo
schiavo stradò col suo cantore
a
paro a paro. E già scendea la sera,
e
velava una dolce ombra le strade.
Né
più borghi muffiti erano intorno,
né
casolari. Erano intorno macchie
folte
di lauro che odorava al cielo.
E
videro ambedue ch'era smarrita
ormai
la strada. Ed il cantore stanco
disse
allo schiavo: «Mal tu m'hai condotto.»
E
gli rispose il pazïente schiavo:
«In
te fidavo: Ché del buon cammino
chi
c'è, se non il buon cantor, maestro?»
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