POEMI DI ATE.
O
quale usci dalla città sonante
di
colombelle Mecisteo di Gorgo,
fuggendo
al campi glauchi d'orzo, ai grandi
olmi
cui già mordea qualche cicala
con
la stridula sega. E tu fuggivi,
figlio
di Gorgo, dall'erbosa Messe,
dove
un tumulto, pari a fuoco, ardeva
sotto
un bianco svolìo di colombelle.
Presto
e campi di glauco orzo e canori
olmi
lasciava, e nella folta macchia,
nido
di gazze, s'immergea correndo,
pallido
ansante, e gli vuotava il cuore
la
fuga, e gli scavava il gorgozzule,
e
dentro dentro gli pungea l'orecchia:
Poi
che tumulto non udì né grida
più
d'inseguenti, egli sostò. La sete
gli
ardea le vene, ed ei bramava ancora
tuffare
in una viva acqua corrente
la
mano impura di purpureo sangue.
Una
rana cantava non lontana,
che
lo guidò. Qua qua, cantava, è l'acqua:
bruna
acqua, acqua che fiori apre di gialle
rose
palustri e candide ninfee.
Ora
egli udì la rauca cantatrice
della
fontana, Mecisteo di Gorgo,
e
seguì l'orma querula e si vide
a un
verde stagno che fiorìa di gialle
rose
palustri e candide ninfee.
Come
egli giunse, la canora rana
tacque,
e lo stagno gorgogliò d'un tonfo.
Or
egli prima nello stagno immerse
le
mani e a lungo stropicciò la rea
con
la non rea: di tutte e due già monde
del
pari, fece una rotonda coppa,
e la
soppose al pìspino. Né bevve.
L'acqua
era nera come morte, e rossi
come
saette uscite dalla piaga
erano
i giunchi, e livide, di tabe,
le
rose accanto alle ninfee di sangue.
E Mecisteo
fuggì dal nero gorgo
chiazzato
dalle rose ampie del sangue;
fuggì
lontano. Or quando già l'ardente
foga
dei piedi temperava, un tratto
sentì
da tergo un calpestìo discorde:
due
passi, uno era forte, uno non era
che
dell'altro la sùbita eco breve:
onde
il suo capo inorridì di punte
e il
cuore gli si profondò, pensando
che
già non fosse il disugual cadere
di
goccie rosse dentro l'acque nere,
né
la lontana torbida querela
di
quella rana, ma pensando in cuore
ch'era
Ate, Ate la vecchia, Ate la zoppa,
che
dietro le fiutate orme veniva.
Né
riguardò, ma più veloce i passi
stese,
e gli orecchi inebrïò di vento.
Ma
trito e secco gli venìa da tergo
sempre
lo stesso calpestìo discorde,
misto
a uno scabro anelito; né forse
egli
pensò che fosse il picchiar duro
del
taglialegna in echeggiante forra,
misto
alla rauca ruggine del fiato:
era
Ate, Ate la zoppa, Ate la vecchia,
che
lo inseguiva con stridente lena,
veloce,
infaticabile. E già fuori
correa
del bosco, sopra acute roccie;
e
d'una in altra egli balzava, pari
allo
stambecco, e a ogni lancio udiva
l'urlo
e lo sforzo d'un simile lancio,
poi
dietro sé picchierellare il passo
eterno
con la sùbita eco breve.
Fin
che giunse al burrone, alto, infinito,
tale
che all'orlo non giungea lo stroscio
d'una
fiumana che muggiva al fondo.
Allor
si volse per lottar con Ate,
il
buono al pugno Mecisteo di Gorgo;
volsesi
e scricchiolar fece le braccia
protese,
l'aria flagellando, e il destro
piede
più dietro ritraeva... e cadde.
Cadde,
e, precipitando, Ate vide egli
che
all'orlo estremo di tra i caprifichi
mostrò
le rughe della fronte, e rise.
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