O
quale, un'alba, Myrrhine si spense,
la
molto cara, quando ancor si spense
stanca
l'insonne lampada lasciva,
conscia
di tutto. Ma v'infuse Evèno
ancor
rugiada di perenne ulivo;
e su
la via dei campi in un tempietto,
chiuso,
di marmo, appese la lucerna
che
rischiarasse a Myrrhine le notti;
in
vano: ch'ella alfin dormiva, e sola.
Ma
lievemente a quel chiarore, ardente
nel
gran silenzio opaco della strada,
volò,
con lo stridìo d'una falena,
l'anima
d'essa: ché vagava in cerca
del
corpo amato, per vederlo a cora,
bianco,
perfetto, il suo bel fior di carne,
fiore
che apriva tutta la corolla
tutta
la notte, e si chiudea su l'alba
avido
ed aspro, senza più profumo.
Or
la falena stridula cercava
quel
morto fiore, e batté l'ali al lume
della
lucerna, che sapea gli amori;
ma
il corpo amato ella non vide, chiuso,
coi
molti arcani balsami, nell'arca.
Né
volle andare al suo cammino ancora
come
le aeree anime, cui tarda
prendere
il volo, simili all'incenso
il
cui destino è d'olezzar vanendo.
E
per l'opaca strada ecco sorvenne
un
coro allegro, con le faci spente,
da
un giovenile florido banchetto.
E
Moscho a quella lampada solinga
la
teda accese, e lesse nella stele:
MYRRHINE
AL LUME DELLA SUA LUCERNA
DORME.
È LA PRIMA VOLTA ORA, E PER SEMPRE.
E
disse: Amici, buona a noi la sorte!
Myrrhine
dorme le sue notti, e sola!
Io
ben pregava Amore iddio, che al fine
m'addormentasse
Myrrhine nel cuore:
pregai
l'Amore e m'ascoltò la Morte.
E
Callia disse: Ell'era un'ape, e il miele
stillava,
ma pungea col pungiglione.
E
disse Agathia: Ella mesceva ai bocci
d'amor
le spine, ai dolci fichi i funghi.
E
Phaedro il vecchio: Pace ai detti amari!
ella,
buona, cambiava oro con rame.
E
stettero, ebbri di vin dolce, un poco
lì
nel silenzio opaco della strada.
E la
lucerna lor blandia sul capo,
tremula,
il serto marcido di rose,
e
forse tratta da quel morto olezzo
ronzava
un'invisibile falena.
Ma
poi la face alla lucerna tutti,
l'un
dopo l'altro, accesero. Poi voci
alte
destò l'auletride col flauto
doppio,
di busso, e tra faville il coro
con
un sonoro trepestìo si mosse.
L'anima,
no. Rimase ancora, e vide
le
luci e il canto dileguar lontano.
Era
sfuggita al demone che insegna
le
vie muffite all'anime dei morti;
gli
era sfuggita: or non sapea, da sola,
trovar
la strada: e stette ancora ai piedi
del
suo sepolcro, al lume vacillante
della
sua conscia lampada. E la notte
era
al suo colmo, piena d'auree stelle;
quando
sentì venire un passo, un pianto
venire
acuto, e riconobbe Evèno.
Ché
avea perduto il dolce sonno Evèno
da
molti giorni, ed or sapea che chiuso
era
nell'arca, con la morta etèra.
E
singultendo disserrò la porta
del
bel tempietto, e presa la lucerna,
entrò.
Poi destro, con l'acuta spada,
tentò
dell'arca il solido coperchio
e lo
mosse, e con ambedue le mani,
puntellando
i ginocchi, l'alzò. C'era
con
lui, non vista, alle sue spalle, e il lieve
stridìo
vaniva nell'anelito aspro
d'Evèno,
un'ombra che volea vedere
Myrrhine
morta. E questa apparve; e quegli
lasciò
d'un urlo ripiombare il marmo
sopra
il suo sonno e l'amor suo, per sempre.
E
fuggì, fuggì via l'anima, e un gallo
rosso
cantò con l'aspro inno la vita:
la
vita; ed ella si trovò tra i morti.
Né
una a tutti era la via di morte,
ma
tante e tante, e si perdean raggiando
nell'infinita
opacità del vuoto.
Ed
era ignota a lei la sua. Ma molte
ombre
nell'ombra ella vedea passare
e
dileguare: alcune col lor mite
demone
andare per la via serene,
ed
altre, in vano, ricusar la mano
del
lor destino. Ma sfuggita ell'era
da
tanti giorni al demone; ed ignota
l'era
la via. Dunque si volse ad una
anima
dolce e vergine, che andando
si
rivolgeva al dolce mondo ancora;
e
chiese a quella la sua via. Ma quella,
l'anima
pura, ecco che tremò tutta
come
l'ombra di un nuovo esile pioppo:
«Non
la so!» disse, e nel pallor del Tutto
vanì.
L'etèra si rivolse ad una
anima
santa e flebile, seduta
con
tra le mani il dolce viso in pianto.
Era
una madre che pensava ancora
ai
dolci figli; ed anche lei rispose:
«Non
la so!»; quindi nel dolor del Tutto
sparì.
L'etèra errò tra i morti a lungo
miseramente
come già tra i vivi;
ma
ora in vano; e molto era il ribrezzo
di
là, per l'inquïeta anima nuda
che
in faccia a tutti sorgea su nei trivi.
E
alfine insonne l'anima d'Evèno
passò
veloce, che correva al fiume
arsa
di sete, dell'oblìo. Né l'una
l'altra
conobbe. Non l'avea mai vista.
Myrrhine
corse su dal trivio, e chiese,
a
quell'incognita anima veloce,
la
strada. Evèno le rispose: «Ho fretta.»
E
più veloce l'anima d'Evèno
corse,
in orrore, e la seguì la trista
anima
ignuda. Ma la prima sparve
in
lontananza, nella eterna nebbia;
e
l'altra, amante, a un nuovo trivio incerto
sostò,
l'etèra. E intese là bisbigli,
ma
così tenui, come di pulcini
gementi
nella cavità dell'uovo.
Era
un bisbiglio, quale già l'etèra
s'era
ascoltata, con orror, dal fianco
venir
su pio, sommessamente... quando
avea,
di là, quel suo bel fior di carne,
senza
una piega i petali. Ma ora
trasse
al sussurro, Myrrhine l'etèra.
Cauta
pestava l'erbe alte del prato
l'anima
ignuda, e riguardava in terra,
tra
gl'infecondi caprifichi, e vide.
Vide
lì, tra gli asfòdeli e i narcissi,
starsene,
informi tra la vita e il nulla,
ombre
ancor più dell'ombra esili, i figli
suoi,
che non volle. E nelle mani esangui
aveano
i fiori delle ree cicute,
avean
dell'empia segala le spighe,
per
lor trastullo. E tra la morte ancora
erano
e il nulla, presso il limitare.
E
venne a loro Myrrhine; e gl'infanti
lattei,
rugosi, lei vedendo, un grido
diedero,
smorto e gracile, e gettando
i
tristi fiori, corsero coi guizzi,
via,
delle gambe e delle lunghe braccia,
pendule
e flosce; come nella strada
molle
di pioggia, al risonar d'un passo,
fuggono
ranchi ranchi i piccolini
di
qualche bodda: tali i figli morti
avanti
ancor di nascere, i cacciati
prima
d'uscire a domandar pietà!
Ma
la soglia di bronzo era lì presso,
della
gran casa. E l'atrio ululò tetro
per
le vigili cagne di sotterra.
Pur
vi guizzò, la turba infante, dentro,
rabbrividendo,
e dietro lor la madre
nell'infinita
oscurità s'immerse.
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