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Giovanni Pascoli
Poemi conviviali

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  • POEMI DI ATE.
    • III. La madre.
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III. La madre.

 

O quale Glauco, ebbro d'oblìo, percosse

la santa madre. E non poté la madre

che pur voleva, sostener nel cuore

quella percossa al volto umile e mesto;

ché da tanti dolori liso il cuore,

ecco, si ruppe; e ne dové morire.

E subito il buon demone sorvenne,

e più veloce d'un pensier di madre

ultimo, la soave anima prese,

la sollevò, la portò via lontano,

e due tre volte la tuffò nel Lete.

E le dicea: «Dimentica per sempre,

anima buona; ché sofferto hai troppo!»

E pose lei nel sommo della terra,

dove è più luce, più beltà; più Dio:

nel calmo Elisio, donde mai non torna

l'anima al basso, a dolorar la vita.

 

Ma nel profondo della terra il figlio

precipitò, nel baratro sotterra,

tanto sotterra alla sua tomba, quanto

erano su la tomba alte le stelle.

E fu, nella oscurità, travolto

dalla massa d'eterna acqua, che sciacqua

pendula in mezzo all'infinito abisso;

che, mentre oscilla il globo della terra,

dentro flotta, e urta le pareti

solide, e con cupo impeto rimbomba.

E l'anima di Glauco era travolta

nell'acqua eterna, e or lanciata contro

le roccie liscie, or tratta dal risucchio

giù. Né un raggio di luce, ma una romba

senza pensiero, e senza tempo il tempo.

Quando, un flutto sboccò con un singulto

in un crepaccio, e Glauco sgorgò dentro

l'antro sonante, e si trovò su l'onda

d'un nero fiume che correa sotterra

rapacemente. Ed era tutto un pianto,

un pianto occulto, il pianto dopo morte,

oh! così vano, le cui solitarie

lacrime lecca il labile lombrico.

E il fiume cieco del dolor sepolto

portò Glauco vicino alla palude

Acherusìade, ove tra terra e acqua

errano l'ombre a cui la morte insegna,

e che verranno ad altra vita ancora,

quando il destino li rivoglia in terra.

 

E vide le aspettantti anime Glauco

sul denso limo, a cui l'urtava il flutto,

e gridò Glauco, alto, e chiamò la madre:

«Madre che offesi... madre che percossi...

madre che feci piangere... Ma vengo

sul fiume eterno, o mamma, a te, del pianto!

O mamma che... feci morire! E morto

ti sono anch'io; nato da te! più morto!

Sì: t'ho percossa. Ma non sai con quanta

forza alle scabre roccie mi percuota

l'acqua laggiù, nel baratro; e che buio

laggiù! che grida! Oh! mai non fossi nato!

Mamma... pietà! perdonami! Se lasci

ch'io salga; e basta che tu voglia, io salgo;

oh! sarò buono! buono, ora per sempre!

non ti batterò più!... Mamma, già l'onda

mi porta via... perdona dunque! Io torno

laggiù... fa presto. Un tempo eri più buona,

o mamma!... O madre, ti mutò la morte

 

Così pregava, il figlio. Ecco, e l'ondata

dal molle limo lo staccò, lo volle

con sé, lo stese, lo portò nel fiume

del pianto vano. E singultendo, il fiume

lo versò nell'abisso; e nell'abisso

se lo riprese il vortice segreto.

E l'anima dell'empio era travolta

dall'acqua eterna, e tratta dal risucchio

giù, poi, nel buio, qua e percossa.

 

Ed ella su, nel sommo della terra,

dove è più luce, più beltà, più Dio,

sedea serena; e con la guancia offesa

sopra la palma, si facea cullare

dal grande mare d'etere, dal breve,

lassù, mollissimo, oscillìo del mondo.

Ecco, levò dalla tranquilla palma

la guancia offesa, e riguardava intorno,

inorecchita. E il buon demone accorse

e le diceva: «Vieni al dolce Lete,

a bere ancora: non assai bevesti

Ed ella bevve. Ma via via dagli occhi

le usciva il pianto e le cadea nell'onda.

E le premeva il demone, soave-

mente, la nuca, e le diceva: «Ancora!

Ancora! Bevi! Non assai bevesti

E docile beveva ella, e nel Lete

le cadea sempre più dirotto il pianto.

Oh! non beveva che l'oblìo del male,

la santa madre, e si levò piangendo,

e disse: «Io sento che il mio figlio piange.

Portami a lui!» Né il demone s'oppose;

ché cuor di madre è d'ogni Dio più forte.

E con lei scese, ed ella andò sotterra

sempre piangendo e giunse alla palude

Acherusìade. Ed ella errò tra l'alga

deforme, ed ella s'aggirò tra il fango,

sempre accorrendo ad ogni sbocco appena

sentia mugghiare una marea sotterra,

e il pianto vano venir su, dei morti,

sui neri fiumi, di su i rossi fiumi.

 

Ed un flutto, laggiù, con un singulto

gittò Glauco in un antro, e poi su l'onde

del nero fiume che correa sotterra,

del pianto occulto, pianto dopo morte;

e lo portò vicino alla palude:

e gridò Glauco, alto, e chiamò la madre:

«Madre, eri buona, e ti mutò la morte!

mamma, io ti feci piangere; mammina,

io sì ti feci, io figlio tuo, morire...»

Ma ella, prima anche di lui, gridava

dal triste limo, tra il fragor dei flutti:

«Mia creatura, non lo feci apposta

io, a morir così d'un subito, io

io, a non dirti che non era nulla,

ch'era per gioco... Vieni su: perdona

 

E Glauco ascese. E poi la madre e il figlio

vennero ancor dalla palude in terra,

l'una a soffrire, e l'altro a far soffrire.

 


 




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