«O
tristi capi! O solo voci! O schiene
vaie
così come la biscia d'acqua!
Via
di costì!» gridava agro il custode
della
prigione. Era selvaggio il luogo,
deserto,
in mezzo della sacra Atene,
con
sue deformi catapecchie al piede
di
bigie roccie dalle strie giallastre,
piene
di buchi, verdeggianti appena
qua
e là di partenio e di serpillo.
Il
sole era sui monti, e nell'azzurro
passava
fosco a ora a ora un volo
d'aspri
rondoni che girava attorno,
sopra
la rocca, alla gran Dea di bronzo,
forte
strillando. Ed anche in terra un gruppo
di
su di giù correva, di fanciulli;
strillando
anch'essi. Ed ecco s'aprì l'uscio
della
casa degli Undici, e il custode
alzò
dal tetro limitar la voce.
Egli
diceva: «È per voi scianto ancora?
Ieri
da Delo ritornò la nave
sacra,
e le feste sono ormai finite.
Non
è più tempo di legar col refe
gli
scarabei! Non più, di fare a mosca
di
bronzo!» Un poco più lontano il branco
trasse,
in silenzio. Poi gridarono: «Ohe?
che
parli tu di scarabei, di mosche?
È
una civetta.» In vero una civetta
tutta
arruffata era nel pugno a Gryllo
figlio
di Gryllo facitor di scudi,
ch'era
il più grande. Ma l'avea pocanzi
in
un crepaccio Hyllo predata, il figlio
d'Hyllo
vasaio, ch'era il più piccino.
In
un crepaccio della bigia rupe,
sotto
un cespuglio di parïetaria,
vide
due rilucenti Hyllo stateri
d'oro,
nell'ombra, e s'appressò; ma l'oro
non
c'era più: poi li rivide i due
fissi
e tondi nell'ombra occhi d'uccello.
Una
civetta della Dea di Atene
immobilmente
riguardava il figlio
d'Hyllo
vasaio; che con le due mani
all'improvviso
l'abbrancò su l'ali,
e la
portava. E Coccalo sorvenne
che
gliela prese; a Coccalo la prese
Cottalo;
e Gryllo a lui la vinse: allora
Cottalo
pianse, Coccalo sorrise,
e il
piccolino frignò dietro il grande.
Ma
Gryllo avvinse con un laccio un piede
della
civetta, e la facea sbalzare
e svolazzare
al caldo sole estivo.
E
dai tuguri altri fanciulli, figli
d'arcieri
sciti, figli di metèci,
trassero.
E in mezzo a tutti la civetta
chiudeva
apriva trasognata gli occhi
rotondi,
fatti per la sacra notte.
E il
coro «Balla» cantò forte «o muori!»
E
nel carcere in tanto era un camuso
Pan
boschereccio, un placido Sileno
col
viso arguto e grossi occhi di toro.
Dolce
parlava. E gli sedeva ai piedi
un
giovanetto dalla lunga chioma,
bellissimo.
E molti altri erano intorno,
uomini,
muti. Ed a ciascuno in cuore
era
un fanciullo che temeva il buio;
e il
buon Sileno gli facea l'incanto.
«Voi
non vedete ciò ch'io sono. Io sono»
egli
diceva «ciò che di me sfugge
agli
occhi umani: l'invisibile. Ora
s'ei
guarda, come fosse ebbro, vacilla;
ma
non è lui, non è quest'io, che trema:
trema
ciò ch'egli guarda, che si vede,
che
mai non dura uguale a sé, che muore.
Io,
di me, sono l'anima, che vive
più,
quanto più vive con sé, lontana
dal
mondo, nella sacra ombra dei sensi.
E
s'ella parta libera per sempre,
nella
notte immortale, ove si trovi
ella
con tutto che non mai vacilla,
ella
morrà? non vedrà più?» Qualcuno
«Vedrà»
rispose; «Non morrà» rispose.
Poi
fu silenzio. Il musico vegliardo
Pan
era solo, accanto al suo pensiero,
invisibile.
Il bello adolescente,
supino
il capo, con la lunga chioma
spiovente,
lungi dalla nuca, all'aria,
beveva
l'eco delle sue parole.
Ed
ecco entrò dall'abbaino un canto
d'acute
voci: «Balla, dunque, o muori!»
E il
custode dal tetro uscio i fanciulli
striduli
fece lontanar nel sole,
fuor
dell'ombra dei tetti e della roccia.
Ma
là, nel sole, molleggiò più goffa
sul
pugno a Gryllo, s'arruffò, chiudendo
aprendo
gli occhi, la civetta, e i bimbi
ridean
più forte. Onde il custode: «O Gryllo
figlio
di Gryllo, tu che sei più savio,
dà
retta. Sai: codesto uccello è sacro
alla
Dea nostra, a cui tu canti l'inno
movendo
nudo coi compagni nudi
per
la città. La nostra Dea sa tutto,
ché
gli occhi ha grigi, di civetta, e vede
con
essi per l'oscurità del cielo.»
«No,
che non vede» disse Hyllo «né vuole
vedere,
e chiude gli occhi tondi al sole.»
«Passero,
taci. Tu, Gryllo» il custode
riprese,
«grande già mi sei. Conosco
tuo
padre, il buono artefice di scudi.
Tu
gli somigli come fico a fico.
Fa
chetare le tortore ciarliere.
C'è
dentro la mia casa uno che muore!»
«Chi?
Questa sera?» «Al tramontar del sole!»
«Perché?»
«La nave ritornò da Delo.
Ed
egli vide un sogno: una vestita
di
bianche vesti, che gli disse: O uomo,
il
terzo giorno toccherai la terra!
E la
cicuta, sì, berrà dentr'oggi.
Tra
poco, o Gryllo. Che in silenzio ei muoia!»
Tacquero
allora i giovanetti a lungo
pensando
all'uomo che così, per mare,
tornava
in patria. E Gryllo disse: «È l'uomo
che
andava scalzo e passeggiava in aria,
e
diceva che il sole era una pietra,
e
sapeva che terra era la luna...»
Ed
in silenzio trassero alla roccia
tutti,
e stettero presso la prigione,
come
aspettando. E la civetta, al lento
filo
costretta, si posò sul ramo
d'un
oleastro che sporgea dal masso
sopra
i ricciuti capi dei fanciulli.
Si
chinò, s'arruffò, molleggiò, cieca
per
la gran luce rosea del tramonto.
E
dai tegoli un passero la vide
e
garrì contro la non mai veduta,
e
vennero altri passeri al garrito;
e il
frastuono eccitò le rondinelle,
e
fuori ognuna si versò dal nido;
e da
un tacito ombroso bosco sacro
venne
la capinera e l'usignuolo.
E
grande era lo strepito e il bisbiglio,
pur
non udito dai fanciulli, attenti
ad
una voce che venìa di dentro,
di
chi tornava alla sua patria terra
invisibile,
e placido parlava
a
un'altra barca che incrociò sul mare.
E
poi cessato il favellìo di dentro,
un
dei fanciulli disse: «Hyllo, tu monta
su
le mie spalle, e narra quel che vedi.»
Hyllo
montò sul dorso a quel fanciullo,
e
sogguardò per l'abbaino: «Io vedo.»
«Hyllo,
che vedi?» «Un buon Sileno vecchio.»
«Che
dice?» «Dice che andrà via, che il morto
non
sarà lui: seppelliranno un altro.»
Il
sole in tanto ritraeva i raggi
dai
bianchi templi della sacra Atene.
Sola
splendea la cuspide dell'asta
che
aveva in mano la gran Dea di bronzo.
Brillò
d'un tratto e poi si spense; e il sole
calò
raggiando dietro il Citerone.
«Hyllo,
che vedi?» «Beve.» «La cicuta!»
«Piangono,
gli altri; uno si copre il capo
con
la veste, uno grida.» «Esso, che dice?»
«Dice
di far silenzio, come quando
si
sparge l'orzo, presso l'ara, e il sale.»
Ed
era alto silenzio, che s'udiva
il
passo scalzo su e giù dell'uomo,
e
poi nemmeno si sentì quel passo..
«Hyllo,
che vedi?» «È sul lettuccio; un altro
gli
preme un piede. S'è coperto. Muore...»
«Dunque
non esce?» «Ora si scopre. Dice:
Un
gallo al Dio che ci guarisce i mali!»
«Che?
La cicuta è un farmaco salubre?»
«Uno
gli chiude ora la bocca e gli occhi.»
«Dunque
non parte? è sempre lì?» «Sì, morto.»
E
bisbigliando stavano i fanciulli
lungo
la roccia, al buio. Ecco e la porta
s'aprì.
N'usciva con singhiozzi e pianti
un
vecchio, un giovinetto, altri poi molti
tristi
gemendo. E dall'inconscie dita
il
filo uscì con un lieve urto a Gryllo:
e il
sacro uccello della notte in alto
si
sollevò con muto volo d'ombra.
E i
compagni del morto ed i fanciulli
scosse
un subito fremito, uno strillo
di
sopra il tetto, Kikkabau... dall'alto,
Kikkabau...
di più alto, Kikkabau...
dal
cielo azzurro dove ardean le stelle.
E
disse alcuno, udendo il fausto grido
della
civetta: «Con fortuna buona!»
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