IL CIECO DI CHIO.
O
Deliàs, o gracile rampollo
di
palma, ai piedi sorto su del Cyntho,
alla
corrente del canoro Inopo;
figlia
di Palma; di qual dono io mai
posso
bearti il giovanetto cuore?
Ché
all'invito de' giovani scotendo
gl'indifferenti
riccioli del capo,
gioia
t'hai fatto del vegliardo grigio
cui
poter falla e desiderio avanza.
E
lui su le me lievi orme adducevi
all'opaca
radura ed al giaciglio
delle
stridule foglie, in mezzo ai pini
sonanti
un fresco brulichìo di pioggia
presso
la salsa musica del mare.
Né
già la bianca tua beltà celasti
a
gli occhi della sua memore mano:
non
vista ad altri, che a lui cieco e, forse,
al
solitario tacito alcïone.
O
Deliàs, e già finì la gara
de'
tunicati Iàoni: già tace
il
vostro coro, grande meraviglia,
in
cui nessuna di te meglio scosse
i
procellosi crotali d'argento.
Ed
il nocchiero su la nave nera
l'albero
drizza, ed in su trae le pietre,
le
gravi pietre su cui dondolando
dorme
la nave nel loquace porto.
Ora
un nocchiero addimandai: Nocchiero,
vago
per l'onde come smergo ombroso,
dài
ch'alla nave il pio cantore ascenda?
cieco
uomo, e vive nella scabra Chio.
Così
te veda un ospite all'approdo.
Tanto
io gli dissi. Egli assentì; ché grande
è del
cantore, ben che nudo e cieco,
la
grazia in uno ardor di venti, in una
ai
cuori alati ritrosia di calma.
E di
qual dono, o Deliàs, partendo,
né
so per dove, su la nave nera,
posso
bearti il giovanetto cuore?
Ché
non possiedo, fuor della bisaccia
lacera,
nulla, e dell'eburnea cetra.
E il
canto, industre che pur sia, non m'offre
se
non un colmo calice ed un tocco
di pingue
verro e, terminato il canto,
una
lunga nel cuore eco di gioia.
Io
cieco vo lungo l'alterna voce
del
grigio mare; sotto un pino io dormo,
dai
pomi avari: se non se talora
m'annunzïò,
per luoghi soli, stalle
di
mandrïani un subito latrato;
o,
mentre erravo tra la neve e il vento,
la
vampa da un aperto uscio improvvisa
nella
sua casa mi svelò la donna
che
fila nel chiaror del focolare.
Pur
non già nulla dar non può, sì molto,
il
cieco aedo; e quale a me tu dono,
negato
a tutti, della tua bellezza,
offristi,
donna; né maggior potevi;
tale
a te l'offro, né potrei maggiore.
Cieco
non ero, e ciò pascea con gli occhi,
che
rumino ora bove pazïente;
e il
fior coglievo delle cose, ch'ora
nella
silenzïosa ombra mi odora.
Era
per aspri gioghi il mio cammino,
degli
uomini vetusti, antelunari.
Nacquero
sopra le montagne nere,
che
ancor la luna non correa su quelle:
nacque
dopo essi, e palpitò per loro
gemiti
strani. Era un meriggio estivo:
io
sentiva negli occhi arsi il barbaglio
della
via bianca, e nell'orecchio un vasto
tintinnìo
di cicale ebbre di sole.
Ed
ecco io vidi alla mia destra un folto
bosco
d'antiche roveri, che al giogo
parea
del monte salir su, cantando
a
quando a quando con un improvviso
lancio
discorde delle mille braccia.
Entrai
nel bosco abbrividendo, e molto
con
muto labbro venerai le ninfe,
non
forse audace violassi il musco
molle,
lambito da' lor molli piedi.
E
giunsi a un fonte che gemea solingo
sotto
un gran leccio, dentro una sonora
conca
di scabra pomice, che il pianto
già
pianto urgea con grappoli di stille
nuove,
caduchi, e ne traeva un canto
dolce,
infinito. Io là m'assisi, al rezzo.
Poi,
non so come, un dio mi vinse: presi
l'eburnea
cetra e lungamente, a prova
col
sacro fonte, pizzicai le corde.
Così
scoppiò nel tremulo meriggio
il
vario squillo d'un'aerea rissa:
e
grande lo stupore era de' lecci,
ché
grande e chiaro tra la cetra arguta
era
l'agone, e la vocal fontana.
Ogni
voce del fonte, ogni tintinno,
la
cava cetra ripetea com'eco;
e
due diceva in cuore suo le polle
forse
il pastore che pascea non lungi.
Ma
tardo, al fine, m'incantai sul giogo
d'oro,
con gli occhi, e su le corde mosse
come
da un breve anelito; e li chiusi,
vinto;
e sentii come il frusciare in tanto
di
mille cetre, che piovea nell'ombra;
e
sentii come lontanar tra quello
la
meraviglia di dedalee storie,
simili
a bianche e lunghe vie, fuggenti
all'ombra
d'olmi e di tremuli pioppi:
Allora
io vidi, o Deliàs, con gli occhi,
l'ultima
volta. O Delìàs, la dea
vidi,
e la cetra della dea: con fila
sottili
e lunghe come strie di pioggia
tessuta
in cielo; iridescenti al sole.
E mi
parlò, grave, e mi disse: Infante!
qual
dio nemico a gareggiar ti spinse,
uomo
con dea? Chi con gli dei contese,
non
s'ode ai piedi il balbettìo dei bimbi,
reduce.
Or va, però
che mite ho il cuore:
voglio
che il male ti germogli un bene.
Sarai
felice di sentir tu solo,
tremando
in cuore, nella sacra notte,
parole
degne de' silenzi opachi.
Sarai
felice di veder tu solo,
non
ciò che il volgo vìola con gli occhi,
ma
delle cose l'ombra lunga, immensa,
nel
tuo segreto pallido tramonto.
Disse,
e disparve; e, per tentar che feci
le
irrequïete palpebre, più nulla
io
vidi delle cose altro che l'ombra,
pago,
finché non m'apparisti al raggio
della
tua voce limpida, o fanciulla
di
Delo, o palma del canoro Inopo,
sola
tu del mio sogno anche più bella,
maggior
dell'ombra che di te serpeggia
nel
mio segreto pallido tramonto.
Ora
a te sola ridirò le storie
meravigliose,
che sentii quel giorno
come
vie bianche lontanar tra i pioppi.
E
quale il tuo, che non maggior potevi,
tale
il mio dono, né potrei maggiore;
ché
il bene in te qui lascerò, come ape
che
punge, e il male resterà più grave,
grave
sol ora, al tuo cantor, cui diede
la
Musa un bene e, Deliàs, un male!
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