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Giovanni Pascoli
Poemi conviviali

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  • IL POETA DEGLI ILOTI.
    • II. La notte.
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II. La notte.

 

E sul lor capo era l'opaca notte

piena di stelle. E risplendea nel cielo

l'Orsa minore, che accennò qual fosse

la vera strada, né però dall'alto

la rischiarava, colaggiù, nell'ombra.

E l'uomo allora e presso lui lo schiavo

sostarono nel bosco ove in un giogo

s'allargava assai piana una radura,

donde era meglio preveder le fiere,

se alcuna v'era che traesse al fiuto.

E poi lo schiavo conficcò nel suolo

il suo bastone, e presso quello il ramo

di sacro lauro, del cantore, e sopra

la sua schiavina sciorinò, che fosse

schermo dal lato onde veniva il freddo.

E disse: «O padre, bene io so le notti

gelide, e il sonno sotto la rugiada.

Ma è ben tardi perché tu l'impari.»

 

Ma allo schiavo il pio cantor rispose:

«Ospite caro, basta ch'io ricordi.

Ero fanciullo ed imparai le notti

gelide e il sonno sotto la rugiada.

Ché da fanciullo pascolai la greggia,

reggendo in mano la ricurva verga

del pecoraio, non lo scettro, ramo

di sacro alloro che, senz'altro squillo

d'arguta cetra, colma a me di canto,

come alle genti di silenzio, il cuore.

Mio padre ad Ascra dall'eolia Cyme

venne, fuggendo, non la copia e gli agi,

sì la cattiva povertà; che venne,

tanto l'amava, su la nave anch'ella,

né più si stolse e poi restò col figlio.

E io badai le pecore sui greppi

dell'Elicone, il grande monte e bello,

e le notti passai su la montagna.

 

E in una notte come questa... il sonno

non mi voleva. Ché splendean le stelle

tutte nel cielo, e fresche del lavacro

veniano su le Pleiadi che al campo

lascian l'aratro e trovano la falce.

E insonne udivo uno stormir di selve,

un correr d'acque, un mormorio di fonti.

E s'esalava un infinito odore

dai molli prati, e tutto era silenzio,

e tutto voce; ed era tutto un canto.

Ed ecco tutto io mi sentii dischiuso

all'universo, che d'un tratto invase

l'essere mio; né così lieve un sogno

entra nell'occhio nostro benché chiuso.

E tutto allora in me trovai, che prima

fuori appariva, e in me trovai quel canto,

che si frangea nell'anima serena

piena, nell'alta opacità, di stelle.

 

E quel canto parlava della Terra

dall'ampio petto, che, infelice madre,

nell'evo primo non facea che mostri,

orrendi enormi, e li tenea nascosti

in sé, perché non li vedesse il Cielo.

E lei guardava coi mille occhi il Cielo,

molto in sospetto, ché l'udia sovente

gemere e la vedea scotersi tutta

per la strettura; e venir fumo fuori

nel giorno, e fiamme nella nera notte.

Al fin la Terra spinse fuor d'un tratto

la grande prole; e con un grande sbalzo

sorsero i monti dalle cento teste,

e d'ogni testa usciva il fumo e il fuoco,

che tolse il giorno e insanguinò la notte.

E non era che notte, risonante

di strida, rugghi, sibili, latrati,

e già non altro si vedea, che i mostri

lambersi il fuoco con le lingue nere.

 

E i mostri urlando massi ardenti al Cielo

avventarono; e il Cielo, arso dall'ira,

spezzò le stelle e ne scagliò le scheggie

contro la Terra, e in una notte d'anni

tra Cielo e Terra risonò la rissa.

Qua mille braccia si tendean nell'ombra

coi massi accesi, e mille urli ad un tempo

uscìan con essi; ma dall'alto gli astri

pioveano muti con un guizzo d'oro.

E il masso a volte si spezzò nell'astro.

E sfavillante un polverìo si sparse

nel nero spazio, come la corolla

d'un fior di luce, che per un momento

illuminò gli attoniti giganti,

e il mare immenso che ondeggiava al buio,

e in terra e in aria rettili deformi,

nottole enormi; e qualche viso irsuto

di scimmia intento ad esplorar da un antro.

 

E poi fu pace. Ed ecco uscì dall'antro

il bruto simo, e nella gran maceria,

dove sono i rottami anche del Cielo,

frugò raspò scavò, come fa il cane

senza padrone, ove si spense un rogo.

E fruga ancora e raspa ancora e scava

ancora. Ma dal Cielo ora alla Terra

sorride il sole e piange pia la nube.

È pace. Pur la Terra anco ricorda

l'antica lotta, e gitta fuoco, e trema.

E al Cielo torna l'ira antica, e scaglia

folgori a lei con subito rimbombo.

È pace sì, ma l'infelice Terra

è sol felice, quando ignara dorme;

e il Cielo azzurro sopra lei si stende

con le sue luci, e vuol destarla e svuole,

e l'accarezza col guizzar di qualche

stella cadente, che però non cade.

 

Come ora. E sol com'ora anco è felice

l'uomo infelice; s'egli dorme o guarda:

quando guarda e non vede altro che stelle,

quando ascolta e non ode altro che un canto.»

Così parlava, e dolce sorse un canto:

sul rumor delle foglie e delle fonti,

un dolce canto pieno di querele

e di domande, un nuvolo di strilli

cadente in un singulto grave, un grave

gemere che finiva in un tripudio.

E il buon Ascreo diceva: «Ecco, fu tolto

il sonno, tutto al querulo usignolo

che così piange per la notte intiera,

né sotto l'ala mai nasconde il capo;

ma solo mezzo, a quella cui la sera

gemere ascolta e riascolta l'alba.

Miseri! e un solo è il lor dolore, e forse

l'uno non ode mai dell'altro il pianto!»

 

E lo schiavo diceva: «Oh! non è pianto

questo né l'altro. Ma la casereccia

rondine ha molti i figli e le faccende,

e sa che l'alba è un terzo di giornata;

e dolce a quegli che operò nel giorno,

viene la sera, e lieto suona il canto

dopo il lavoro. E l'usignol gorgheggia

tutta la notte né vuol prender sonno...

ch'egli non vuole seppellir nel sonno,

avere in vano dentro sé non vuole

un solo trillo di quel suo dolce inno!»

Così parlava. E sorse aurea la luna

dalla montagna, ed insegnò la strada

al buon Ascreo, che mosse con lo schiavo.

A mano a mano lo accoglieva il canto

degli usignoli, fin che su l'aurora

gli annunzïò ch'era vicino un tetto,

una garrula rondine in faccende.

 

E poi giunsero al monte alto e divino,

a un tempio ermo tra i boschi. E il pio cantore

disse allo schiavo: «Ospite amico, è questo

il luogo dove pasturai fanciullo

il gregge, e dove appresi il canto, e dove

cantai la rissa tra la Terra e il Cielo.

Ma poi mi piacque, non cantare il vero,

sì la menzogna che somiglia al vero.

Ora il lavoro canterò, né curo

ch'io sembri ai re l'Aedo degli schiavi.»

 

Disse: e nel tempio solitario appese

il bello ansato tripode di bronzo.

 


 




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