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Giovanni Pascoli Poemi conviviali IntraText CT - Lettura del testo |
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II. L’etèra.O quale, un'alba, Myrrhine si spense, la molto cara, quando ancor si spense stanca l'insonne lampada lasciva, conscia di tutto. Ma v'infuse Evèno ancor rugiada di perenne ulivo; e su la via dei campi in un tempietto, chiuso, di marmo, appese la lucerna che rischiarasse a Myrrhine le notti; in vano: ch'ella alfin dormiva, e sola. Ma lievemente a quel chiarore, ardente nel gran silenzio opaco della strada, volò, con lo stridìo d'una falena, l'anima d'essa: ché vagava in cerca del corpo amato, per vederlo a cora, bianco, perfetto, il suo bel fior di carne, fiore che apriva tutta la corolla tutta la notte, e si chiudea su l'alba avido ed aspro, senza più profumo. Or la falena stridula cercava quel morto fiore, e batté l'ali al lume della lucerna, che sapea gli amori; ma il corpo amato ella non vide, chiuso, coi molti arcani balsami, nell'arca.
Né volle andare al suo cammino ancora come le aeree anime, cui tarda prendere il volo, simili all'incenso il cui destino è d'olezzar vanendo. E per l'opaca strada ecco sorvenne un coro allegro, con le faci spente, da un giovenile florido banchetto. E Moscho a quella lampada solinga la teda accese, e lesse nella stele: MYRRHINE AL LUME DELLA SUA LUCERNA DORME. È LA PRIMA VOLTA ORA, E PER SEMPRE. E disse: Amici, buona a noi la sorte! Myrrhine dorme le sue notti, e sola! Io ben pregava Amore iddio, che al fine m'addormentasse Myrrhine nel cuore: pregai l'Amore e m'ascoltò la Morte. E Callia disse: Ell'era un'ape, e il miele stillava, ma pungea col pungiglione. E disse Agathia: Ella mesceva ai bocci d'amor le spine, ai dolci fichi i funghi. E Phaedro il vecchio: Pace ai detti amari! ella, buona, cambiava oro con rame. E stettero, ebbri di vin dolce, un poco lì nel silenzio opaco della strada. E la lucerna lor blandia sul capo, tremula, il serto marcido di rose, e forse tratta da quel morto olezzo ronzava un'invisibile falena. Ma poi la face alla lucerna tutti, l'un dopo l'altro, accesero. Poi voci alte destò l'auletride col flauto doppio, di busso, e tra faville il coro con un sonoro trepestìo si mosse.
L'anima, no. Rimase ancora, e vide le luci e il canto dileguar lontano. Era sfuggita al demone che insegna le vie muffite all'anime dei morti; gli era sfuggita: or non sapea, da sola, trovar la strada: e stette ancora ai piedi del suo sepolcro, al lume vacillante della sua conscia lampada. E la notte era al suo colmo, piena d'auree stelle; quando sentì venire un passo, un pianto venire acuto, e riconobbe Evèno. Ché avea perduto il dolce sonno Evèno da molti giorni, ed or sapea che chiuso era nell'arca, con la morta etèra. E singultendo disserrò la porta del bel tempietto, e presa la lucerna, entrò. Poi destro, con l'acuta spada, tentò dell'arca il solido coperchio e lo mosse, e con ambedue le mani, puntellando i ginocchi, l'alzò. C'era con lui, non vista, alle sue spalle, e il lieve stridìo vaniva nell'anelito aspro d'Evèno, un'ombra che volea vedere Myrrhine morta. E questa apparve; e quegli lasciò d'un urlo ripiombare il marmo sopra il suo sonno e l'amor suo, per sempre.
E fuggì, fuggì via l'anima, e un gallo rosso cantò con l'aspro inno la vita: la vita; ed ella si trovò tra i morti. Né una a tutti era la via di morte, ma tante e tante, e si perdean raggiando nell'infinita opacità del vuoto. Ed era ignota a lei la sua. Ma molte ombre nell'ombra ella vedea passare e dileguare: alcune col lor mite demone andare per la via serene, ed altre, in vano, ricusar la mano del lor destino. Ma sfuggita ell'era da tanti giorni al demone; ed ignota l'era la via. Dunque si volse ad una anima dolce e vergine, che andando si rivolgeva al dolce mondo ancora; e chiese a quella la sua via. Ma quella, l'anima pura, ecco che tremò tutta come l'ombra di un nuovo esile pioppo: «Non la so!» disse, e nel pallor del Tutto vanì. L'etèra si rivolse ad una anima santa e flebile, seduta con tra le mani il dolce viso in pianto. Era una madre che pensava ancora ai dolci figli; ed anche lei rispose: «Non la so!»; quindi nel dolor del Tutto sparì. L'etèra errò tra i morti a lungo miseramente come già tra i vivi; ma ora in vano; e molto era il ribrezzo di là, per l'inquïeta anima nuda che in faccia a tutti sorgea su nei trivi.
E alfine insonne l'anima d'Evèno passò veloce, che correva al fiume arsa di sete, dell'oblìo. Né l'una l'altra conobbe. Non l'avea mai vista. Myrrhine corse su dal trivio, e chiese, a quell'incognita anima veloce, la strada. Evèno le rispose: «Ho fretta.»
E più veloce l'anima d'Evèno corse, in orrore, e la seguì la trista anima ignuda. Ma la prima sparve in lontananza, nella eterna nebbia; e l'altra, amante, a un nuovo trivio incerto sostò, l'etèra. E intese là bisbigli, ma così tenui, come di pulcini gementi nella cavità dell'uovo. Era un bisbiglio, quale già l'etèra s'era ascoltata, con orror, dal fianco venir su pio, sommessamente... quando avea, di là, quel suo bel fior di carne, senza una piega i petali. Ma ora trasse al sussurro, Myrrhine l'etèra. Cauta pestava l'erbe alte del prato l'anima ignuda, e riguardava in terra, tra gl'infecondi caprifichi, e vide. Vide lì, tra gli asfòdeli e i narcissi, starsene, informi tra la vita e il nulla, ombre ancor più dell'ombra esili, i figli suoi, che non volle. E nelle mani esangui aveano i fiori delle ree cicute, avean dell'empia segala le spighe, per lor trastullo. E tra la morte ancora erano e il nulla, presso il limitare. E venne a loro Myrrhine; e gl'infanti lattei, rugosi, lei vedendo, un grido diedero, smorto e gracile, e gettando i tristi fiori, corsero coi guizzi, via, delle gambe e delle lunghe braccia, pendule e flosce; come nella strada molle di pioggia, al risonar d'un passo, fuggono ranchi ranchi i piccolini di qualche bodda: tali i figli morti avanti ancor di nascere, i cacciati prima d'uscire a domandar pietà!
Ma la soglia di bronzo era lì presso, della gran casa. E l'atrio ululò tetro per le vigili cagne di sotterra. Pur vi guizzò, la turba infante, dentro, rabbrividendo, e dietro lor la madre nell'infinita oscurità s'immerse.
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