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Giovanni Pascoli Poemi conviviali IntraText CT - Lettura del testo |
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SILENO.
- Figlio di Pan, figlio del dio silvestre che nei canneti sibila e frascheggia, là, nell'Asopo, e frange a questa rupe il lungo soffio della sua zampogna; tornar nell'ombra io volli a te, Sileno, ora che tace la diurna rissa del maglio e della roccia, or che non odo più lime invide, più trapani ingordi; or che gli schiavi qua e là sdraiati sognano fiumi barbari; e la luna prendendo il monte, il monte di Marpessa, piove un pallore in cui tremola il sonno. Sono un fanciullo, sono anch'io di Paro; Scopas il nome; palestrita: ed oggi, coronato di smilace e di pioppo, correvo a gara con un mio compagno: e giunsi qui dove gl'ignudi schiavi Paflàgoni con cupi ululi in alto tender vedevo intorno ad una rupe le irsute braccia ed abbassar di schianto. Ecco, il compagno rimandai soletto al grammatista e al garrulo flagello; ma io rimasi ad ammirar gl'ignudi schiavi intorno la rupe alta ululanti. Su sfavillìo di cunei l'arguto maglio cadeva; e io seguia con gli occhi l'opera grande della breve bietta, ch'entra sottile come la parola, poi sforza il masso, come quella il cuore; quando, con uno scroscio ultimo, il blocco s'aprì, mostrando, come in ossea noce bianco gariglio, te di Pan bicorne figlio, o Sileno: e tu ridevi al sole riscintillante sopra l'ulivete; e tu puntavi con l'orecchie aguzze l'aereo mareggiar delle cicale. Ma che mai cela questa rupe? Io venni a domandarti perché mai sorridi solo, costì, col tuo marmoreo volto, e come tendi le puntute orecchie al sibilìo de' fragili canneti. Od altro ascolti e vedi altro, Sileno?
Scopas, alunno dell'alpestre Paro, così parlava al candido Sileno figlio improvviso della roccia, nato sotto martelli immemori di schiavi. Il giovinetto gli sedea di contro sopra un macigno, con al vento i bruni riccioli, in mezzo a molti blocchi sparsi, come il pastore tra l'inerte gregge. E gli rispose il candido Sileno, o parve, a un tratto con un volger d'occhi simile a lampo che vaporò bianco e scavò col fugace alito il monte. Ed a quel lampo il giovinetto vide ciò che non più gli tramontò dagli occhi.
Vide, sotto la scorza aspra del monte, vide il tuo regno, o bevitor di gioia, vecchio Sileno: una palestra: in essa sorprese il breve anelito del lampo in un bianco lor moto i palestriti: l'ombra seguace irrigidì quel moto per sempre; e stette nelle braccia tese degli oculati pugili già pronto lo scatto di fischiante arco di tasso, ed alla mano al lanciator ricurvo restò sospeso impazïente il disco in cui pulsava il vortice di ruota, ed alla pianta alta de' corridori l'impeto rapido oscillò del vento: gli efebi intenti a contemplar la gara ressero sul perfetto omero l'asta. In tanto a luminosi propilei, con sul capo le braccia arrotondate, vedeva lente vergini salire: la pompa che albeggiò per un momento, eternamente camminò nell'ombra.
Vide, sotto la scorza aspra del monte, emersa dalle grandi acque Afrodite vergine, al breve anelito del lampo che la scopriva, con le pure braccia velar le sacre fonti della vita: l'ombra seguace conservò per sempre la dolce vita ch'esita nascendo. E vide anche la morte, anche il dolore: vide fanciulli e vergini cadere sotto gli strali di adirati numi, e tutti gli occhi volgere agl'ingiusti sibili: tutti: ma non già la madre: la madre, al cielo; e proteggea di tutta sé la più spaurita ultima figlia. In tanto le Nereidi dal mare volsero il collo, con la nivea spinta del piede su le nuove onde sospesa; mentre al bosco fuggivano le ninfe inseguite da satiri correnti con lor solidi zoccoli di becco; e un baccanale dileguò sul monte.
Il giovinetto udì strepere trombe, gemere conche, ed ascoltò soavi, tra l'immensa manìa bronzosonante, squillare i doppi flauti di loto. Ed ecco il monte ritornò com'era, tacito immoto, se non se nel fosco gomito d'una forra anche appariva l'ultimo bianco di lucenti groppe di centauri precipiti, e sonava un quadruplice tonfo di galoppo, che poi vanì. Ma quando tacque il tutto, oh! come sotto il velo di grandi acque, s'udiva ancora eco di cembali, eco di timpani, eco di piovosi sistri; ed euhoè ed euhoè gridare come in un sogno, come nel gran sogno di quelle rupi candide di marmo dormenti nella sacra ombra notturna. E con quel grido si mescea nell'eco il lungo soffio della tua zampogna, o Pan silvano; e percotea la fronte del sorridente bevitor di gioia, e del fanciullo che sedea tra i blocchi, quale un pastore tra l'inerte gregge.
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