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Giovanni Pascoli
Poemi conviviali

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  • I VECCHI DI CEO.
    • V. L’inno nuovo.
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V. L’inno nuovo.

 

E Panthide a quell'ora era pur giunto

sotto l'aerea Iulide natale.

E vide in mare una bireme, e vide

che ammainando entrava già nel porto.

E dall'aerea Iulide e dal grande

leon di pietra accovacciato in vetta,

il popolo scendea lungo l'Elixo,

scendea dall'alto in lunga fila al mare.

Veniano primi i giovinetti a corsa,

dando alla brezza i riccioli del capo;

poi le donne altocinte, ultimi i vecchi,

spartendo tra due passi una parola.

Poi che giungea dall'Istmo, la bireme,

portando alfine i buoni atleti a casa,

e quante niuno ancor sapea, ghirlande.

E trasse al lido anche Panthide, in seno

celando il fascio delle sue cicute.

Stava in disparte. Ed ecco dalla nave

scese una schiera di settanta capi

bruni, tutti fioriti di corimbi,

e su la spiaggia stettero. Un chiomato

citaredo sedé sopra un pilastro,

e presso lui gli auleti con le lunghe

tibie alla bocca. E il mare eterno, il mare

alterno, a spiaggia sospingea l'ondate,

le ricogliea, così tra il canto e il pianto.

 

Stridé la tibia, tintinnì la cetra,

e il coro alzò tra il sussurrìo del mare

un inno di Bacchylide. In disparte

era Panthide, e il vecchio cuor batteva

contro la manna delle sue cicute.

L'onda ascendeva, discendeva l'onda;

e il coro andò, poi ritornò sul lido.

 

O sacra Ceo!

mosse ver te la fulgida

Fama che in alto spazia,

a te recando un messo

pieno di grazia,

che nella lotta il pregio

fu del valido Argeo;

 

e noi la grande

gloria, sull'istmio vertice,

venuti dall'Euxanti-

d'isola dia, facemmo

chiara coi canti

nostri, noi coro adorno

di settanta ghirlande:

 

ed or la musa indigena

suscita il dolce strepito

di tibie lyde

per onorar d'un inno

il tuo figlio, o Panthide!

 

Udì Panthide, e il cuor batté più forte

contro la manna delle sue cicute.

Ora poteva sciogliere la vita

felicemente, come alcuno un fascio

d'erbe e di fiori che nel giorno colse,

sfa, su la sera, che ne fa ghirlanda,

tornato a casa. Ché dei cinque figli

niuno lasciava senza lode in terra.

Gli avea ben fatto il Sole, e dalle Grazie

avea sortito ciò Che all'uomo è meglio.

Ammirato dagli uomini mortali

tornava a casa, per pestare, il saggio

medico, l'erbe nel mortaio di bronzo.

E la notte era dolce, aurea; tranquillo

era il suo cuore. Ché il Panthide nuovo

s'era acquetato sul materno petto,

e il forte Argeo, stanco di mare e gioia,

dormiva, già sognando altre corone.

Buona, la sorte! buona! Ché concesso

non gli era mica di salire al cielo!

 


 




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