LA CANZONE DEL CARROCCIO.
Mugliano i bovi appiedi dell'Arengo.
Sull'alba il muglio nella città fosca
sparge l'odor del sole e della terra.
L'aratro appare che ricopre il seme,
appare il plaustro che riporta il grano.
Torri Bologna più non ha, che pioppi:
tra i suoi due fiumi, tremoli alti pioppi.
Più non ha case, che tra il verde, rare,
con le ben fatte cupole di strame;
più non ha piazze, che grandi aie bianche
su cui vapora un polverìo di pula.
Vi son gli stabbi sotto i tamarischi;
le cavedagne all'ombra dei vecchi olmi;
e il sonnolento macero, che pare
quasi ronfare il canto delle rane.
Il muglio parla d'opere e ricolti,
parla di solitudine e di pace
e d'abbondanza. Il muglio desta i falchi
lassù, prigioni: ch'empiono la muda
d'un loro squittir rauco.
I falchi d'Eristallo e Solimburgo,
vedeano in sogno brighe zuffe stormi.
Narrano desti l'uno all'altro il sogno.
Sognava Buoso d'essere a Dovara,
nel suo castello, e di sognar l'inferno...
Quieti a basso ruminano i bovi.
L'anno è finito delle lor fatiche.
Finita è l'ansia di tirare il plaustro
per l'ampia via del console romano.
Traean pur ieri alla città turrita
le castellate dal lucente usciolo;
fasci traean di canapa e di stoppa,
a cui nel verno esercitar le ancelle;
e bianche sacca turgide di grano,
e scabri ciocchi e fragili sarmenti:
hanno provvisto il pane, il vino, il fuoco,
e il saldo filo onde si tesse il drappo
rude e sincero. E ruminano gravi
di maraviglia, ad or ad or mugliando
nella città che dorme.
Il bianco e il rosso stanno sotto un giogo:
i due colori della tua bandiera,
forte Bologna. I rossi magri bovi,
dalle ampie corna e dai garretti duri,
fendean gemendo la saturnia terra,
allor che madre grande era di biade,
grande d'eroi. Rapidi aravano. Era
forse alla bure un dittator di Roma.
Rapidi vanno: ne' pelosi orecchi
risuona ancora il grido dell'impero.
Ma poi dall'Alpe scesero, tranando
le case erranti d'Eruli e di Goti,
i bovi bianchi, a cui restò negli occhi
lo stupor primo della Terra sacra,
i monti, i laghi, i prati, i campi, i fiumi.
Ella giacea sotto la mano stesa
del condottiere; e i piccoli e le donne
gli occhi celesti confondean nel cielo.
Stendea la mano il Barbaro esclamando:
Italia! Italia! Italia!
Ed ora i pigri bovi bianchi a terra
piegan le gambe e sdraiano le membra.
Ma resta in piedi il fulvo lor compagno,
così ch'è il giogo a tutti e due più grave.
L'un capo e l'altro appressa torvi il giogo
comune, e gli umidi aliti stranieri.
Ma il rosso alfine le ginocchia ponta
e piega a terra: e in pace, a paro, entrambi
girano poi la macina dei denti.
Comincia l'anno delle lor fatiche:
a paro, in pace, romperanno il campo:
tra poco al campo porteranno il concio
tiepido e nero; e poi faranno i solchi,
i lunghi solchi per la pia sementa,
per grano e lino, canapa orzo spelta.
L'aratro è fondo, ma il biolco preme
la stiva più. «Là, Bianco!» urla; «Qua, Rosso!»
Fumano insieme il fiato della terra
rotta e dei bovi e del nebbioso cielo
e del seminatore.
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