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Giovanni Pascoli
Canzoni di re Enzio

IntraText CT - Lettura del testo

  • Sezione I.
    • LA CANZONE DEL CARROCCIO.
      • II. Il custode dell’arengo.
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II. Il custode dell’arengo.

 

Sul limitare siedono i biolchi,

mangiano pane. E quali son manenti,

quali arimanni, del contado, astretti

al suolo altrui come le quercie e gli olmi.

Ma dietro loro stridono le chiavi

e i chiavistelli, ed apparisce il vecchio

ch'ha in sua balìa le porte delle stalle:

Zuam Toso. Il lume ha grave ormai degli occhi

traguarda e dice: «Uomini, dove siete?»

Cala il cappuccio, stringe a sé la cappa

con pelli agnine, ch'ebbe dal Comune

ad Ognissanti per il suo lavoro.

Zuam Toso trema, abben che sia d'ottobre.

Guarda a' suoi piedi, sulla soglia, e dice:

«Traete dentro, uomini, i bovi: è l'ora.

Già Bonifazio monta al bitifredo».

Dice il custode dell'Arengo; e i servi

taciti in piedi s'alzano, e del piede

tentano i lombi a gl'indolenti bovi

che s'alzano soffiando.

 

E parla il Toso, volto a gli arimanni,

volto ai manenti: «Io vedo ormai più poco.

Ben converrà che il frate mio m'aiuti,

buon uomo e savio: ch'io non son quel ch'ero

quando il passaggio feci in Terra Santa.

Oh! mi ricordo Orso Cazanimici,

Pietro Asinelli, Scappa Garisendi,

pro' cavalieri: io, piccolo ragazzo.

Io, sì, tornai: niuno tornò, di loro,

sì che in Bologna ne fu poi gran pianto.

Poi l'altra volta mi crociai. Ricordo

il Lambertazzo e il Geremeo seduti

placidi all'ombra, all'ombra d'una palma.

Era in Soria. Tenevo io per le briglie

i due cavalli: si mordean rignando...»

Quivi un biolco avanti trae la coppia

prima de' bovi, e dice: «Misèr Toso...»

E quei luogo, ed esce nella piazza.

Sotto l'Arengo vi son già fanciulli

con gli occhi aperti al cielo.

 

Vogliono il re. Dice Zuam Toso: «Andate!

Quando ero putto come voi, ben altro

io vidi! Vidi, grande, alto a cavallo,

l'imperatore dalla barba rossa.

!» Gli occhi tondi vanno dietro al dito.

«Egli solcava col suo grande aratro

le piazze e vie delle città romane:

seguiano il solco nugoli di corvi».

Più lungi è un crocchio di donzelle e donne;

chinano gli occhi all'appressar del Toso.

E il Toso dice: «E quale di voi, donne,

quello ch'io vidi, poté qui vedere?

Santo Francesco. Trito, macilento,

piccolo; in veste disusata e vile.

Ma e' parlò così soavemente,

che tutti quanti furono in Dio ratti.

Niuno è sì grande, che gli sia promesso

diceva — uno palagio pieno d'oro,

che non portasse un sacco di letame

per un aver sì grande! —»

 

Poi Zuam aggiunge: «Ed era quello il tempo

che Dio sgrollava la città partita,

piena d'invidia. Ed e' parlò di pace,

Santo Francesco, e non facea guadagno.

Ecco e d'un soffio scosse Dio le torri.

tra lor nimiche, e ignuna versò fuori

le sue colombe; e stettero sull'alie,

e poi scesero al frate poverello,

quali sul capo, quali sulle spalle,

alquante in grembio, alquante sulle braccia.

Allor sì venne la divina grazia,

in veder quelle l'alie aprire e i becchi,

semplici e caste, sotto la sua mano

Ma quivi il Toso muove inver l'Arengo,

ché alcun lo chiama; e le donzelle e donne

levano gli occhi verso le finestre.

Cercano il re. Vanno da torre a torre,

da torri guelfe a torri ghibelline,

e sopra i merli e sopra le baltresche

tubano le colombe.

 




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