Sul limitare siedono i biolchi,
mangiano pane. E quali son manenti,
quali arimanni, del contado, astretti
al suolo altrui come le quercie e gli olmi.
Ma dietro loro stridono le chiavi
e i chiavistelli, ed apparisce il vecchio
ch'ha in sua balìa le porte delle stalle:
Zuam Toso. Il lume ha grave ormai degli occhi
traguarda e dice: «Uomini, dove siete?»
Cala il cappuccio, stringe a sé la cappa
con pelli agnine, ch'ebbe dal Comune
ad Ognissanti per il suo lavoro.
Zuam Toso trema, abben che sia d'ottobre.
Guarda a' suoi piedi, sulla soglia, e dice:
«Traete dentro, uomini, i bovi: è l'ora.
Già Bonifazio monta al bitifredo».
Dice il custode dell'Arengo; e i servi
taciti in piedi s'alzano, e del piede
tentano i lombi a gl'indolenti bovi
che s'alzano soffiando.
E parla il Toso, volto a gli arimanni,
volto ai manenti: «Io vedo ormai più poco.
Ben converrà che il frate mio m'aiuti,
buon uomo e savio: ch'io non son quel ch'ero
quando il passaggio feci in Terra Santa.
Oh! mi ricordo Orso Cazanimici,
Pietro Asinelli, Scappa Garisendi,
pro' cavalieri: io, piccolo ragazzo.
Io, sì, tornai: niuno tornò, di loro,
sì che in Bologna ne fu poi gran pianto.
Poi l'altra volta mi crociai. Ricordo
il Lambertazzo e il Geremeo seduti
placidi all'ombra, all'ombra d'una palma.
Era in Soria. Tenevo io per le briglie
i due cavalli: si mordean rignando...»
Quivi un biolco avanti trae la coppia
prima de' bovi, e dice: «Misèr Toso...»
E quei dà luogo, ed esce nella piazza.
Sotto l'Arengo vi son già fanciulli
con gli occhi aperti al cielo.
Vogliono il re. Dice Zuam Toso: «Andate!
Quando ero putto come voi, ben altro
io vidi! Vidi, grande, alto a cavallo,
l'imperatore dalla barba rossa.
Lì!» Gli occhi tondi vanno dietro al dito.
«Egli solcava col suo grande aratro
le piazze e vie delle città romane:
seguiano il solco nugoli di corvi».
Più lungi è un crocchio di donzelle e donne;
chinano gli occhi all'appressar del Toso.
E il Toso dice: «E quale di voi, donne,
quello ch'io vidi, poté qui vedere?
Santo Francesco. Trito, macilento,
piccolo; in veste disusata e vile.
Ma e' parlò così soavemente,
che tutti quanti furono in Dio ratti.
Niuno è sì grande, che gli sia promesso –
diceva — uno palagio pieno d'oro,
che non portasse un sacco di letame
per un aver sì grande! —»
Poi Zuam aggiunge: «Ed era quello il tempo
che Dio sgrollava la città partita,
piena d'invidia. Ed e' parlò di pace,
Santo Francesco, e non facea guadagno.
Ecco e d'un soffio scosse Dio le torri.
tra lor nimiche, e ignuna versò fuori
le sue colombe; e stettero sull'alie,
e poi scesero al frate poverello,
quali sul capo, quali sulle spalle,
alquante in grembio, alquante sulle braccia.
Allor sì venne la divina grazia,
in veder quelle l'alie aprire e i becchi,
semplici e caste, sotto la sua mano!»
Ma quivi il Toso muove inver l'Arengo,
ché alcun lo chiama; e le donzelle e donne
levano gli occhi verso le finestre.
Cercano il re. Vanno da torre a torre,
da torri guelfe a torri ghibelline,
e sopra i merli e sopra le baltresche
tubano le colombe.
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