Sotto le grandi volte dell'Arengo
ora i biolchi hanno attaccato al carro
il primo paio, hanno fermato il giogo
con lo statoio dal sonante anello.
Hanno al timone l'altre paia aggiunte
con lunghe zerle e lucide catene.
Sono addobbati a bianco ed a scarlatto
ora i biolchi, gli otto bovi e il carro.
Giace su questo un albero da nave,
alto, ferrato. Attendono nell'ombra
uomini e bovi il cenno della squilla.
Guardano in tanto. Attorno lor non sono,
nella rimessa, acute vanghe e zappe,
falci e frullane, non il curvo aratro,
né coreggiati né pennati appesi
alle pareti o flessili crinelle:
sì lancie e scudi e selle e cervelliere,
balestre grosse e loro saettame,
guanti di ferro, elmi di ferro, e trulli,
trabucchi e manganelle.
Dice Zuam Toso: «Il carro, non di concio
credo vi sappia, non di grano e mosto.
Non uve frante egli portò; sì morti,
grandi e bei morti, e sente forse il sangue.
Io l'amo, o genti, ch'io nell'anno nacqui
ch'egli fu fatto. Ahimè! com'egli ha salde
le membra sue di rovere e di faggio!
Io sono invece canna di palude...
Ma non fui sempre. Non tremiamo al vento
noi! Come ha scritto il savio Rolandino.
Dicea mio padre, che Dio l'abbia in gloria,
che Barbarossa minacciò Bologna.
E noi facemmo questo greve carro
per uscir fuori, lenti lenti, al lento
passo dei bovi; e c'era un grande abeto
in cime all'Alpe, vecchio come Roma:
noi ne facemmo questa lunga antenna,
ch'ei la vedesse; e suvvi la campana;
che pur lontana egli la udisse chiara
tra il trotto dei cavalli».
Tacciono, all'armi guardano i biolchi.
Chi guarda è un altro che in lor è: l'Antico.
Fermo sul suo pungetto, uno è un astato
che avea seguito l'aquile di Druso.
Ei campeggiò sul Reno e sul Visurgi.
Franse i giganti Cauchi e Langobardi.
Portò, trent'anni, l'armi il vallo e il vitto.
Cenò la pulte con l'aceto e il sale.
Ebbe ferite e un ramuscel di quercia.
Poi vecchio arò due iugeri di terra.
Le glebe allora ei debellava, e gli era
pilo la vanga e gladio la gombiera.
Spiò nel volo degli uccelli il tempo
della sementa e della mietitura.
Piantò gli alberi a file di coorte.
Non trombe all'alba altre sentì, che il gallo.
Non fu nel campo altro ronzìo, che d'api.
Poi, di quel campo, in un de' suoi nepoti,
servo rimase. E portò lino al Duddo
e vino allo Scafardo.
L'altro a cavallo dietro il suo Sculdascio
giunto era qui con la selvaggia fara:
rasa la nuca, la capellatura
attorno al viso mista alla gran barba.
Vide i gasindi dar la lancia a Clefi,
vide ferir nella colonna Autari.
Quindi nel nome del suo Dio, nel nome
della sua spada, ebbe una casa e il bosco.
Tenne il cavallo, serbò scudo e lancia,
se lo chiamasse all'eribanno il Duca.
Ed avventò contro le sacre quercie
la vecchia scure delle sue battaglie.
Ed allevò gli utili porci, e trasse
ai fòri antichi le grugnenti greggi.
Poi si trovò, ne' suoi nepoti, schiavo,
esso arimanno! Né più v'era attorno,
chi la saetta gli ponesse in mano,
chi lo adducesse al libero quadrivio.
Ora, egli ammira l'armi del Comune,
fermo sul suo pungetto.
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