Il popolo — ecco dalle quattro porte,
dai quattro venti, il popolo che viene.
Viene seguendo i quattro gonfaloni
coi quattro santi e con la rossa croce.
Hanno l'osbergo tutti e le gambiere,
hanno il roncone e la mannaia lombarda.
Hanno lasciato i ferri del lavoro
sull'oziosa incudine e sul banco,
e preso il ferro. Vengono a cavallo,
guardando in su, cattani e valvassori,
domini e conti, in cui poder castella
son, del contado, ed, in città, tubate.
Son gli Andalò, signori di più terre,
con cinquecento servi della gleba,
Alberto de' Cazanimici grandi,
la mala volpe, ed Albari e Galluzzi
e il conte reo da Panico e il cattano
di Baragazza, i re della montagna,
ch'hanno il lor covo in venti castellacci,
e rubano alle strade.
Pensano i Grandi: «O buoni callegari
e bisilieri, non vi pesa in groppa
il nostro ferro? Il ferro a voi fa d'uopo
per ganci e graffi e raspe e seghe e morse.
L'azza... vi resti, pei beccai per l'arti!
Ma quel ronciglio abbinlo i boattieri».
Il popol va, pensano ognuno e tutti:
«Conti, v'abbiam graffiato dagli scudi
l'orso e il leon rampante con la rosa,
e pinti su l'aquile nostre e i pardi.
Voi cavalcate dietro i gonfaloni
nostri, Colonna, Grifo, Angelo e Branca.
Ma voi covate sotto la gaiferia
astio tra voi, spregio per noi cattivi.
Tempo verrà che, ricchi noi, daremo
castella ai gufi e torri alle cornacchie.
Vi abbiamo preso l'azze e le corazze,
l'aste e gli scudi. Verrà tempo, e forse
per l'armi vostre vi darem le nostre:
pettini, cardi ed aspi».
Vedono all'ombra dell'Arengo il carro
come galea ch'è per uscir dal porto.
S'alza il nitrito d'un cavallo al cielo.
Più ferreo tuona il passo de' pedoni.
I cavalieri, ognuno oblia sua parte:
Comazzo parla amico ad Uspinello.
«Chi pari a lui? Che Berte o Bertazzole!»
Un marangone, vecchio, delle Schize,
ricorda i tempi di vent'anni addietro,
che lo raddusse un angelo a Piumazzo.
«Egli parava i bovi con un fiore.
Fu l'anno che i cavalli ghibellini
bevvero al Reno: e che le manganelle
furono prese...» Un valvassore aggiunge:
«Ne restò una, che gittò l'altr'anno
l'asino...» Un riso corre grandi e plebe.
«Chi pari a te, Carroccio bianco e rosso?
Forse il Blancardo? Forse la Buira?
Quando ella va, con le sue vacche, intorno
gridando: Chi to' latte? «
Le lunghe spade ignude sulle spalle
sono i Lombardi ai lati del Carroccio.
Sembrano usciti allora da un convento,
d'aver giurato sopra l'evangelia;
aver negli occhi fiamme di covoni
e fumigare lento di macerie.
In lor città vedono andar l'aratro:
passa l'aratro e rompe ossa di morti.
Serpeggia il rovo dove fu la Chiesa,
l'edera monta dove fu l'Arengo.
Non hanno più la lor città di pietra:
questa di legno hanno, e ramenghi vanno.
Poservi su quanto è più dolce al mondo,
quanto è più sacro, quanto è suo per sempre.
Poservi il dritto, che vivente e sano
da fiamme e da rovine esce e da mucchi
di morti: il dritto della nuova Italia.
E però stanno ai mozzi delle ruote,
guardia e scorta, con le lunghe spade i
ignude sulle spalle.
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