E dalla torre suona la campana.
Il Podestà comanda di serrare.
Rimbomba ogni uscio del Palagio nuovo:
sull'imbrunire chiavi e chiavistelli
vanno con agro cigolìo di ferro.
Sèrrisi bene il falco randione,
il pro' bastardo della grande Aguglia.
Fece il Comune sacramento e legge
ch'egli non esca quinci mai, che morto.
Oh! non vedrà né Puglia né Toscana!
Addio Lamagna e Capitana!
Ogni uscio è chiuso del Palagio nuovo;
chiusa è la porta ed è levato il ponte.
Vegliano ad occhi aperti nella notte,
come civette, guaite per le scale.
Vegliate, o guaite, intorno al re prigione.
Egli era al lato dell'imperadore,
era lo specchio della sua persona.
Egli correva mare e terra in armi.
Del sacro impero era la fiamma al vento.
Ora è prigione, e non farà più stuolo
e non menerà più gualdana!
Dorme il Palagio tutto chiuso e muto.
Soltanto, sparse qua e là, le guaite
anche la bocca aprono d'ora in ora,
d'alto e di basso, e gridano: Eya! Eya!
Disse il Comune: «Lo tenemo, come
da piccol can spesso si ten zinglare,
e lo terremo, poi ch'è dritto nostro».
E non lo rese a padre od a fratelli,
per preghi e gabbi, né per oro od armi.
Vegliate, o guaite, Eya gridate in fino
che in cielo sia la stella diana.
Eya! c'è tempo a che ci sia la stella
che sveglia i cuori. Ora si spegne il foco
e la lucerna; ora si dorme il sonno
primo, più forte, il sonno senza sogno.
Eya! c'è tempo a starnazzare i galli,
a cantar chiusi ed a chiamare i sogni:
ché dopo i galli è gran silenzio: ogni uomo
parla sommesso ad un suo morto caro.
Eya! c'è tempo allo schiarir dell'alba...
Ma voi gridate, o guaite, a vuoto! Oh guaite,
codesta vostra veglia è vana!
E' non v'è più! Fuggito è il re! Si trova
oltre le mura, oltre i serragli e il Reno.
È già più lungi anche del suo reame,
è già più lungi anche del sacro impero.
Non più prigione e non più re, si trova
nel luogo all'oriente della terra,
dove uscì prima l'erba che fa il seme,
dove uscì prima l'arbore ch'ha il frutto.
Non è più re, né manto egli ha, che falbo;
non ha che il musco d'oro, onde si veste
da sé la calda creta umana.
Non è più re, ma d'una schiava, in dono,
la libertà che a lei fu resa, egli ebbe.
La dolce schiava gli ha portato il sole
di ch'ella è piena, che ne' campi imbevve.
Egli alla nuda libertà s'è stretto,
bee l'aria pura di tra le sue labbra,
tra le sue braccia prieme l'erba folta,
da tutta aspira il grande odor del sole.
All'ombra egli è del legno della vita,
e presso il cuore sente mormorare
l'inestinguibile fontana.
E dorme alfine, dorme l'Uomo avvinto
alla dolce Eva. Quella che fu schiava,
quei che fu re tengono il capo accanto,
e l'onde brune solcano le bionde.
No, non e' dorme: s'è addormito il mondo
intorno a loro. Ei solo è desto, e vede
l'acque dormire, lieve ansare i venti,
chiudere il cielo gravi le sue stelle,
sparir la terra. Liberi e sereni
sentono il tutto che s'annulla preso
dalla dolcezza antelucana.
Eya! gridate, Eya! gridate a vuoto
l'ultima volta, o guaite del palagio.
Ed ecco suona la campana.
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