LA CANZONE DELL’OLIFANTE.
Fu il venerdì, ch'era dolore e sangue
e la battaglia al Prato delle rose.
Bello era il tempo e tralucente il giorno.
Enzio era volto a dove nasce il sole.
Di là! l'altr'anno, sorgere una stella
soleva, lunga, che parea selvaggia
del cupo cielo, e lo fendeva in fuga,
lasciando il segno come una ferita.
Tutte le notti dall'agosto al verno
sorgea, come una fiaccola di guerra
sur una torre, e sotto quella luce
nere apparian le torri di Bologna,
immobili, erte, le dugento scolte
veglianti intorno al re prigione.
Fu il venerdì della battaglia al Ponte
di Benevento. Enzio guardava al sole,
il re vedeva l'Asinella acuta,
la rossa torre sulla via di Roma.
Per là nel verno il conte di Monforte,
coi maliscalchi e cavalier di Francia,
avea stradato. Allor già verno,
è ora fin di ferraio; ora in Campagna e Puglia
che avvien di voi, leoni di Soave?
Ora in Palagio i sedici custodi
sparsi per l'aula seguono con gli occhi
il re pensoso. Egli ode nella strada
la cantilena lunga di un giullare
e un aspro suono di vivuola:
Sale Ulivieri e guarda a giù dal monte,
guarda la
valle piena di grandi ombre.
Rumor di
contro viene dalle forre,
rumor di
zampe sopra secche fronde.
Muli e
cavalli fiutano altre torme
lì
dirimpetto, e rignano all'odore.
Schiarisce
il giorno, son le nubi rosse.
Suonano i
corni, squillano le trombe.
AOI
Guarda Ulivieri, guarda nella valle.
Quanti
elmi al sole, quante spade e lancie!
Gli
osberghi d'oricalco hanno le frangie:
bandiere
al vento, rosse azzurre e bianche.
I
gonfaloni pendono dalle aste;
punte su
razzano come fiamme.
Son tante
schiere, ch'e' non può dir quante.
Giammai
non vide sforzo così grande.
AOI
Scende Ulivieri, e conta ai Franchi tutto.
«Più
grande sforzo mai non fu veduto.
Son mille
e mille, e hanno osbergo e scudo;
hanno
allacciato al capo l'elmo bruno;
dritte le
lancie, i verrettoni in pugno.
In campo
state e Dio vi dia virtù!»
Dicono i
Franchi: «Abbia chi fugge, lutto.
A morir
qui non mancherà nessuno».
AOI
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