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Giovanni Pascoli Canzoni di re Enzio IntraText CT - Lettura del testo |
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III. I biolchi.Sotto le grandi volte dell'Arengo ora i biolchi hanno attaccato al carro il primo paio, hanno fermato il giogo con lo statoio dal sonante anello. Hanno al timone l'altre paia aggiunte con lunghe zerle e lucide catene. Sono addobbati a bianco ed a scarlatto ora i biolchi, gli otto bovi e il carro. Giace su questo un albero da nave, alto, ferrato. Attendono nell'ombra uomini e bovi il cenno della squilla. Guardano in tanto. Attorno lor non sono, nella rimessa, acute vanghe e zappe, falci e frullane, non il curvo aratro, né coreggiati né pennati appesi alle pareti o flessili crinelle: sì lancie e scudi e selle e cervelliere, balestre grosse e loro saettame, guanti di ferro, elmi di ferro, e trulli, trabucchi e manganelle.
Dice Zuam Toso: «Il carro, non di concio credo vi sappia, non di grano e mosto. Non uve frante egli portò; sì morti, grandi e bei morti, e sente forse il sangue. Io l'amo, o genti, ch'io nell'anno nacqui ch'egli fu fatto. Ahimè! com'egli ha salde le membra sue di rovere e di faggio! Io sono invece canna di palude... Ma non fui sempre. Non tremiamo al vento noi! Come ha scritto il savio Rolandino. Dicea mio padre, che Dio l'abbia in gloria, che Barbarossa minacciò Bologna. E noi facemmo questo greve carro per uscir fuori, lenti lenti, al lento passo dei bovi; e c'era un grande abeto in cime all'Alpe, vecchio come Roma: noi ne facemmo questa lunga antenna, ch'ei la vedesse; e suvvi la campana; che pur lontana egli la udisse chiara tra il trotto dei cavalli».
Tacciono, all'armi guardano i biolchi. Chi guarda è un altro che in lor è: l'Antico. Fermo sul suo pungetto, uno è un astato che avea seguito l'aquile di Druso. Ei campeggiò sul Reno e sul Visurgi. Franse i giganti Cauchi e Langobardi. Portò, trent'anni, l'armi il vallo e il vitto. Cenò la pulte con l'aceto e il sale. Ebbe ferite e un ramuscel di quercia. Poi vecchio arò due iugeri di terra. Le glebe allora ei debellava, e gli era pilo la vanga e gladio la gombiera. Spiò nel volo degli uccelli il tempo della sementa e della mietitura. Piantò gli alberi a file di coorte. Non trombe all'alba altre sentì, che il gallo. Non fu nel campo altro ronzìo, che d'api. Poi, di quel campo, in un de' suoi nepoti, servo rimase. E portò lino al Duddo e vino allo Scafardo.
L'altro a cavallo dietro il suo Sculdascio giunto era qui con la selvaggia fara: rasa la nuca, la capellatura attorno al viso mista alla gran barba. Vide i gasindi dar la lancia a Clefi, vide ferir nella colonna Autari. Quindi nel nome del suo Dio, nel nome della sua spada, ebbe una casa e il bosco. Tenne il cavallo, serbò scudo e lancia, se lo chiamasse all'eribanno il Duca. Ed avventò contro le sacre quercie la vecchia scure delle sue battaglie. Ed allevò gli utili porci, e trasse ai fòri antichi le grugnenti greggi. Poi si trovò, ne' suoi nepoti, schiavo, esso arimanno! Né più v'era attorno, chi la saetta gli ponesse in mano, chi lo adducesse al libero quadrivio. Ora, egli ammira l'armi del Comune, fermo sul suo pungetto.
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