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Giovanni Pascoli
Canzoni di re Enzio

IntraText CT - Lettura del testo

  • Sezione I.
    • LA CANZONE DEL CARROCCIO.
      • V. Le compagnie dell’arme.
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V. Le compagnie dell’arme.

 

Il popolo — ecco dalle quattro porte,

dai quattro venti, il popolo che viene.

Viene seguendo i quattro gonfaloni

coi quattro santi e con la rossa croce.

Hanno l'osbergo tutti e le gambiere,

hanno il roncone e la mannaia lombarda.

Hanno lasciato i ferri del lavoro

sull'oziosa incudine e sul banco,

e preso il ferro. Vengono a cavallo,

guardando in su, cattani e valvassori,

domini e conti, in cui poder castella

son, del contado, ed, in città, tubate.

Son gli Andalò, signori di più terre,

con cinquecento servi della gleba,

Alberto de' Cazanimici grandi,

la mala volpe, ed Albari e Galluzzi

e il conte reo da Panico e il cattano

di Baragazza, i re della montagna,

ch'hanno il lor covo in venti castellacci,

e rubano alle strade.

 

Pensano i Grandi: «O buoni callegari

e bisilieri, non vi pesa in groppa

il nostro ferro? Il ferro a voi fa d'uopo

per ganci e graffi e raspe e seghe e morse.

L'azza... vi resti, pei beccai per l'arti!

Ma quel ronciglio abbinlo i boattieri».

Il popol va, pensano ognuno e tutti:

«Conti, v'abbiam graffiato dagli scudi

l'orso e il leon rampante con la rosa,

e pinti su l'aquile nostre e i pardi.

Voi cavalcate dietro i gonfaloni

nostri, Colonna, Grifo, Angelo e Branca.

Ma voi covate sotto la gaiferia

astio tra voi, spregio per noi cattivi.

Tempo verrà che, ricchi noi, daremo

castella ai gufi e torri alle cornacchie.

Vi abbiamo preso l'azze e le corazze,

l'aste e gli scudi. Verrà tempo, e forse

per l'armi vostre vi darem le nostre:

pettini, cardi ed aspi».

 

Vedono all'ombra dell'Arengo il carro

come galea ch'è per uscir dal porto.

S'alza il nitrito d'un cavallo al cielo.

Più ferreo tuona il passo de' pedoni.

I cavalieri, ognuno oblia sua parte:

Comazzo parla amico ad Uspinello.

«Chi pari a lui? Che Berte o Bertazzole!»

Un marangone, vecchio, delle Schize,

ricorda i tempi di vent'anni addietro,

che lo raddusse un angelo a Piumazzo.

«Egli parava i bovi con un fiore.

Fu l'anno che i cavalli ghibellini

bevvero al Reno: e che le manganelle

furono prese...» Un valvassore aggiunge:

«Ne restò una, che gittò l'altr'anno

l'asino...» Un riso corre grandi e plebe.

«Chi pari a te, Carroccio bianco e rosso?

Forse il Blancardo? Forse la Buira?

Quando ella va, con le sue vacche, intorno

gridando: Chi to' latte? «

 

Le lunghe spade ignude sulle spalle

sono i Lombardi ai lati del Carroccio.

Sembrano usciti allora da un convento,

d'aver giurato sopra l'evangelia;

aver negli occhi fiamme di covoni

e fumigare lento di macerie.

In lor città vedono andar l'aratro:

passa l'aratro e rompe ossa di morti.

Serpeggia il rovo dove fu la Chiesa,

l'edera monta dove fu l'Arengo.

Non hanno più la lor città di pietra:

questa di legno hanno, e ramenghi vanno.

Poservi su quanto è più dolce al mondo,

quanto è più sacro, quanto è suo per sempre.

Poservi il dritto, che vivente e sano

da fiamme e da rovine esce e da mucchi

di morti: il dritto della nuova Italia.

E però stanno ai mozzi delle ruote,

guardia e scorta, con le lunghe spade i

ignude sulle spalle.

 

 

 




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