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Giovanni Pascoli Canzoni di re Enzio IntraText CT - Lettura del testo |
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VI. Il primo carroccio.Che fu da prima? Il carro del convento, che usciva ai campi, al tempo delle messi. Squillava il suono della campanella, per l'erme vie, con le cicale a gara. Vennero al trebbio ove sostava il carro, gli schiavi agresti col formento e l'orzo. Vi si accoglieano i grami e nudi intorno, come a sperare; e non sapean che cosa. Sedeano a lungo, il viso tra le pugna, quel suono udendo lontanar nel sole.
E poi tornò tra il canto degli uccelli, un dì di maggio. Era la terra in fiore. La Martinella risonò nel nome di Dio, che fece il servo e il valvassore. Sonava a stormo, e i servi della gleba corsero con le falci e con le ronche. V'era un altare, dove ardea l'incenso; salìa l'incenso e si mutava in nubi. V'erano angeli con le lunghe trombe, e dalle trombe vento uscì di guerra.
E poi fiammeggiò rosso nei carrobbi della città, chiamando l'Arti all'armi. «Le lancie in pugno, o voi che le foggiate! Le spade in pugno, o voi che le temprate! Voi che le torri a pietra a pietra alzate, chi fa, disfà: gettate giù le torri!» Venne la plebe antica. Allato al carro stava un uscito dall'oblìo dei tempi; grande; come ombra al vespro ed all'aurora.
Parea che avesse i fasci con le scuri. E poi tornò sotto il gran cielo il carro fulgente d'armi. Avea con sé gli artieri e i ferrei conti e i sacerdoti assòrti: il Popolo era, intorno al suo Carroccio. La città era, che possente, augusta, usciva con la Chiesa e con l'Arengo e col suo Santo e col suo Dio; con tutto. Giunta al nemico, ella dicea col bronzo della sua squilla: — È presso te Milano, che mutò luogo: al modo delle stelle. —
E venne tempo, e patria sola il plaustro restò. Giaceva la città di pietra. E il plaustro parve il Gran Carro di stelle che intorno a un punto sempre va nel cielo. Ma vennero altri plaustri, altre vaganti città tranate dai muggenti bovi, altri raminghi popoli. Fu il mese d'aprile, il mese che aprono le gemme. Di fiori in boccia sorridea l'altare. Le Martinelle sonavano a gloria.
E il doppio a festa si faceva immenso e percotea nell'avvenir profondo. Misto era a scrosci, a voci, a urla, a rombi. Forse tonava sopra la Redorta. Era d'aprile. Il figlio della lupa quel mese arò con la giovenca e il toro. Era d'aprile. Dalle tue macerie nascean, Milano, l'erbe ancora e i fiori. Vi aveva arato l'arator selvaggio: dal solco fondo germinò l'Italia.
E fu l'Italia giovinetta, eterna, su te, con te, Carroccio di Milano, quel fin di maggio! Già sfiorian le rose. Andava lento in val d'Olona il plaustro. Il distruttore di città lo scorse: gli si avventò coi cavalier di ferro, ruppe le schiere, i sacri bovi attinse, l'azza scagliò contro la sacra antenna. Allor su lui con novecento spade, splendide al sole, si gettò la Morte.
E quella sera il carro del convento, il santo carro di Pontida, attese. Reddiano stanchi i falciatori a vespro, rossi di sangue, e rosso era di sangue il carro, e i bovi, che muggian sommesso. Ma il canto andava, delle trombe, al cielo. Rosso era il cielo, che s'empìa di stelle. Lucean le stelle ai morti. In mezzo, eretto, si riposava su l'enorme spada Alberto da Giussano.
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