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Giovanni Pascoli Canzoni di re Enzio IntraText CT - Lettura del testo |
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IX. I prigioni.Volge all'occaso, volge a Porta Stiera, volge il Carroccio per la via del sangue. Non trenta volte trenta dì son corsi da che re Enzio combatté, fu preso, per quella via, come un astor maniero preso alla pania. Or ei ricorda il giorno che passo passo in groppa d'un muletto seguì quel carro e i bovi dell'aratro. O sacro impero! O aquile di Roma! Ma Enzio a un tratto si riscuote, e parla. Parla a Marino d'Ebulo, a Currado di Solimburgo ora loquace or muto. Siede cruccioso Buoso da Dovara. «Credete voi che dorma la possanza del sacro impero?» Il conte apre la bocca. Buoso tentenna il capo e non risponde. S'odono i duri passi de' custodi fuor delle porte, e il busso de' ronconi sul pavimento. La città par vuota. Esclama il Re: «No: veglia!»
Dalla città par la città lontana. Non s'ode più di tante squille e trombe che una campana, e il busso de' ronconi sul pavimento e il passo de' custodi. Aggiunge il Re: «Per una nube credi, o Buoso, tu, non sia più cielo il cielo?» Tentenna il capo Buoso da Dovara. «Conte Currado, ben mio padre ha detto, come tu sai, bene il sereno Augusto scrisse: — Faceste corna, o voi, di ferro, con cui credete ventilare il mondo! Alcuno ascese per cader più d'alto. Voi fate feste e vanti coi fratelli vostri Lombardi: ripensate al nostro grande avo; addimandatene i fratelli... — Conte, e' le corna frangerà di ferro!» Il conte un poco apre le labbra, e tace. Stanno i custodi, è ferma la campana. Non s'ode più che il paternostro, in piazza, d'un cieco senza guida.
Enzio a sé ode i battiti del cuore. Pensa a suo padre. Federigo Augusto è come Dio, tacito sì ma insonne. Forse e' s'aggira col possente stuolo presso la cerchia di città ribelli. Cesare in armi scorre per l'impero. Vengono al suon de' timpani gli arcieri arabi snelli, e grandi cavalieri monaci assòrti ne' lor tetri voti; Normanni biondi della Conca d'oro con gli occhi incerti tra verzieri e fiordi; conti e cattani scesi d'Apennino, e col suo stormo cavalcando chiuso, solo Ecellino; e leopardi e tigri, e con l'andar di nave i dromedari, e il leofante con la torre quadra da cui s'alza il vessillo imperiale con la grande aquila; e l'imperatore. Egli cavalca, né tristo né lieto, con un gerfalco al pugno.
Enzio a sé ode i battiti del cuore giovane. — E s'Egli fosse alla Scultenna? Se campeggiasse intorno alla Fossalta? volesse su quella oste di manenti trar sua vendetta dove fu lor vanto? Sono, in lor cieca oltracotanza, in campo forse ora usciti per sentor che ne hanno... Ed Enzio parla: «Or di', conte Currado di Solimburgo! Se d'un tratto, andando coi tardi bovi e i tardi artieri il carro, l'oste sentisse sibilar le freccie dei Saracini, rimbombar l'assalto dei cavalieri, calar mazze e spade ed azze e lancie, ed apparir, ruggendo, il nero capo d'Ecellin d'Onara, e stormi e stormi correre in tempesta sopra il Carroccio, e d'ogni parte il grido alzarsi: Roma! Roma! Imperatore!...» «Ma egli è morto,» grida il conte: «morto morto, l'Imperatore!»
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