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AA.VV.
Formazione permanente paradigma della formazione iniziale

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2) Come far diventare queste situazioni opportunità di crescita nella sequela di Cristo

 

            Credo che dal dialogo tra di noi sulle proprie esperienze personali e/o congregazionali  possono venir fuori tanti suggerimenti. Qui mi limiterò ad indicarne alcuni di carattere generale[1][22].

 

            Prima di tutto, non bisogna confondere un religioso in crisi con un cattivo religioso. Forse il suo comportamento non corrisponde del tutto a quello di un buon religioso; ma, non si può dimenticare la situazione che sta attraversando. Dimenticare questo può spingere il tale religioso verso l'abisso poiché, vedendosi incompreso dagli altri, emarginato, si sente portato a risolvere in senso negativo la sua crisi. Anzi, questo religioso (e può succedere a qualsiasi di noi quando meno lo aspettiamo, giovane, adulto o anziano: cadono anche i cedri del Libano!...), proprio perché si trova così, ha bisogno, più di nessun altro, della comunità; e, in modo speciale, di qualche confratello o consorella, direttore spirituale[1][23], confessore, ecc. A questo riguardo, però, il modo migliore di aiutarlo è quello di ricavare da lui/lei stesso/a tutte le risorse possibili; insomma, non darglielo tutto bell'e fatto. In questo modo la persona riacquista fiducia in se stessa, nel proprio valore, e si prepara ad affrontare altre eventuali difficoltà in futuro. Si può applicare qui quanto dice un autore, parlando dell'accompagnamento dei formandi:

 

"L'eccessiva preoccupazione da parte di alcuni educatori di portare in braccio i giovani quando questi si incontrano con le prove e gli ostacoli della vita non può che creare gente debole e un pò smidollata, incapace della minima rinuncia ed estremamente vulnerabile in cambo affettivo.

            Per questo il formatore deve assolutamente evitare di assumere il ruolo di bagnino (sempre pronto a salvare il giovane da cattive acque) o quello di angelo consolatore (sempre disponibile ad asciugare le lacrime del giovane, ma poco preoccupato di non farlo piangere più); sono, invece, indispensabili veri educatori, capaci cioè di tirar fuori dal giovane quelle ricchezze e potenzialità sconosciute, ma presenti.

            Educatori coraggiosi, che non abbiano paura di mettere in crisi (: in condizione di crescita) i giovani loro affidati, seguendo, così, l'esempio di Gesù che a volte provocava i suoi apostoli, con domande inquietanti, per renderli più forti nella fede: “Che cercate?”; “Volete andarvene anche voi?”; “Chi dite che io sia?”; “Di che stavate parlando lungo la via?”; “Mi ami tu più di costoro?”...

            Solo l'educatore che si preoccupa di allenare il giovane al dono di sé (cf. GS 24) e non, certamente, quello che correrà innanzi per eliminare ogni ostacolo e fatica sul suo cammino di crescita, solo costui potrà porre le basi perché il dono della verginità sia accolto e vissuto con fedeltà"[1][24].

 

 

2.1- Curare e rafforzare la fede: la vita di preghiera comunitaria e personale

 

            Se già la vita di ogni cristiano poggia, innanzitutto, sulla fede, in quanto credente, a ragion di più quella del religioso. Perciò, è soprattutto nel caso del religioso che trascurare la propria vita di fede, la riflessione e meditazione/contemplazione continua della medesima e, in questo contesto, la proclamazione e approfondimento continui nella preghiera comuitaria e personale, segna l'inizio della fine, un vero suicidio, personale o collettivo. E chi sa se un certo numero di religiosi e comunità siano oggi in questo processo di auto-distruzione.

 

            Ha detto il Magistero in vari degli ultimi documenti, parlando della Vita Consacrata oggi:

 

"La vita consacrata non si sostiene e non si diffonde senza la preghiera" (CCC 2687).

 

"... la preghiera è l'anima dell'apostolato, ma anche che l'apostolato vivifica e stimola la preghiera" (VC 67b).

 

"La preghiera in comune, che è sempre stata considerata la base di ogni vita comunitaria, parte dalla contemplazione del mistero di Dio, grande e sublime, dall'ammirazione per la sua presenza, operante nei momenti più significativi delle nostre famiglie religiose come anche nell'umile e quotidiana realtà delle nostre comunità" (VFC 12d).

 

"... la preghiera (è) sorgente della comunione" (VC 51b).

 

Perciò è necessario "imparare a dare tempo a Dio (vacare Deo)" (VFC 13a), in modo esplicito, visibile, "quantificabile". E questo non significa perdere del tempo da dedicare all'apostolato; anzi, proprio "lo slancio apostolico viene sostenuto e alimentato dalla preghiera comune" (VFC 19), in stretta relazione e complementarietà con la preghiera personale (VFC 15). Infatti:

 

"Le comunità religiose più apostoliche e più evangelicamente vive -siano contemplative o attive- sono quelle che hanno una ricca esperienza di preghiera" (VFC 20a).

 

La conclusione è chiara:

 

"“Come famiglia unita nel nome del Signore, (la comunità religiosa) è per sua natura il luogo dove l'esperienza di Dio deve potersi particolarmente raggiungere nella sua pienezza e comunicare agli altri” (DC 15); prima di tutto ai propri fratelli di comunità" (VFC 20b).

 

I religiosi sono chiamati nella Chiesa ed in mezzo ad una società secolarizzata, a dare all'umanità testimonianza della "loro fame di Assoluto" (VFC 20c).

 

            Si tratta di un vita di comunione personale e comunitaria con Dio, come espressione di una fede, in certi momenti della vita talvolta sofferta, ma sempre umilmente insistente: "Credo, Signore, aiutami nella mia incredulità!" (Mc 9, 23), "Signore, aumenta la nostra fede!" (Lc 17, 5). Se viene tralasciata, non si può pretendere di non subirne le conseguenze. I motivi soprannaturali sono alla base della Vita Consacrata: vi siamo entrati proprio in virtù e spinti dalla fede, dalla convinzione di una chiamata del Signore, non da una simpatia semplicemente umana, come può succedere in un club di amici.

 

            Quindi, i momenti di difficoltà nella vita di un religioso vanno capiti e risolti partendo, innanzitutto, dalla fede. Del resto, la storia della Vita Consacrata ci insegna che, nei momenti di crisi sociale, ecclesiale o religiosa, i religiosi hanno cercato di metterci rimedio insistendo su: preghiera e studio. Perciò, è così pericoloso l'atteggiamento di alcuni oggi che subiscono più o meno fortemente l'influsso della secolarizzazione ambientale e smettono sia di pregare che di studiare, di leggere dei libri impegnativi, accontentandosi magari di sfogliare il giornale o qualche settimanale, guardare (forse in un ansioso "zapping") la televisione, navigare via internet, o.., al di più -se sono sacerdoti- leggendo qualche foglio che dà loro già pronta l'omelia della domenica...

 

            In conseguenza, non deve mancare nella vita del religioso né la fedeltà alla preghiera né la preghiera per la fedeltà.

 

            Il superamento, poi, del momento di difficoltà porterà il religioso ad una nuova saggezza: quella di sentirsi un povero accolto ed amato ed un peccatore perdonato da Dio e, quindi, capace di accogliere ed avere misericordia di se stesso e degli altri.

 

 

2.2- Curare e rafforzare la vita fraterna

 

            L'amore non è due cuori e una capanna; ma, un farsi carico dell'altro, impegnarsi con lui per lui. E' un modo di riaffermare, di dire che la sua esistenza ci coinvolge, ci impegna, vale la pena; anzi, la vita è più bella perché c'è lui/lei. Tutti abbiamo il bisogno non solo affettivo ma persino metafisico di sperimentare la validità del nostro esistere; e questo è il compito e la ragion d'essere dell'amore. Il bisogno di amare e di sentirci amati, e da persone concrete, perché l'amore cerca i volti. Come diceva Giovanni Paolo II:

 

"L'uomo non può vivere senza amore. Egli rimane per se stesso un essere incomprensibile, la sua vita è priva di senso, se non gli viene rivelato l'amore, se non s'incontra con l'amore, se non lo sperimenta e non lo fa proprio, se non vi partecipa vivamente" (RH 10a).

 

"... Dio è amore (1Gv 4, 8) e vive in se stesso un mistero di comunione personale d'amore. Creandola a sua immagine e continuamente conservandola nell'essere, Dio iscrive nell'umanità dell'uomo e della donna la vocazione, e quindi la capacità e la responsabilità dell'amore e della comunione (cf. GS 12). L'amore è, pertanto, la fondamentale e nativa vocazione di ogni essere umano" (FC 11; cf. CCC 2331, 2392).

 

"La prima vocazione del cristiano è amare, e la vocazione all'amore è realizzata in due vie diverse: nel matrimonio, oppure nel celibato vissuto per amore del Regno (cf. FC 11)" (OEAU 56b).

 

Prafrasando il famoso principio di R. Descartes: "Cogito, ergo sum" (penso, e perciò esisto), possiamo dire che la società consumistica ci fa dire: "Consumo, ergo sum" (acquisto, spendo, consumo, e perciò esisto), la società post-moderna: "Sono accessibile (via telefono, fax, radio, internet...), e perciò esisto". Ma, a dire il vero, la ragione umana e cristiana più importante, visto che Dio è amore (cf. 1Gv 4, 8.16) e ci ha creato per amore (cf. Gn 1-2; Ef 1; Col 1), è: "Amo, ergo sum" (amo, e perciò esisto); anzi, "Amor, ergo sum" (sono stato amato e continuo ad essere amato -da Dio, dagli altri...-, e perciò esisto)!

 

            Nella Vita Religiosa, il luogo privilegiato della perseveranza nelle difficoltà è la comunità. Sia essa come ambiente e fattore importante nel tempo della formazione iniziale, sia come luogo di attuazione, di alimento, di sviluppo, aggiornamento, sostegno, difesa, fede, comunione e carità..., lungo tutta la vita. Ci siamo impegnati dinanzi ad essa, in mezzo essa, con essa, nel momento della nostra Professione religiosa; ed essa si è impegnata con noi. Non siamo da soli e non possiamo lasciare il fratello/sorella da soli! Il progresso spirituale e in particolare la fedeltà sono una responsabilità di tutti verso tutti. Negli anni passati (e chi sa se ancor oggi?) chi sa quanti se ne sono andati perché è mancato loro l'aiuto comunitario, o perché non hanno saputo o voluto chiederlo![1][25]

 

            Se una comunità credibile è la condizione perché un giovane decida la sua entrata in un Istituto religioso, una comunità fedele è la condizione della perseveranza dinamica. Una comunità di vita spirituale, di comunione di fede, di preghiera e di amore; una comunità fraterna in cui si vivano facili e validi rapporti tra confratelli/consorelle, tra superiori e sudditi, una comunità ospitale e aperta verso l'esterno; una comunità dedita a servizi apostolici conformi allo spirito religioso e al carisma dell'Istituto. Una tale vita di comunità libera e matura i suoi membri! Ecco la luce e la saggezza delle parole del VFC:

 

"La qualità della vita fraterna ha una forte incidenza anche sulla perseveranza dei singoli religiosi.

            Come la scarsa qualità della vita fraterna è stata frequentemente addotta quale motivazione di non pochi abbandoni, così la fraternità vissuta ha costituito e tuttora costituisce un valido sostegno alla perseveranza di molti.

            In una comunità veramente fraterna, ciascuno si sente corresponsabile della fedeltà dell'altro; ciascuno dà il suo contributo per un clima sereno di condivisione di vita, di comprensione e di aiuto reciproco; ciascuno è attento ai momenti di stanchezza, di sofferenza, di isolamento, di demotivazione del fratello, ciascuno offre il suo sostegno a chi è rattristato dalle difficoltà e dalle prove.

            Così la comunità religiosa, che sorregge la perseveranza dei suoi componenti, acquista anche la forza di segno della perenne fedeltà di Dio e quindi di sostegno alla fede e alla fedeltà dei cristiani, immersi nelle vicende di questo mondo, che sempre meno sembra conoscere le vie della fedeltà" (VFC 57).

 

Lo stesso documento offre ancora un elemento fondamentale per aiutare a perseverare: vivere in pace e gioia lo stare insieme comunitario. Non poche comunità, viste dal di fuori (e a volte anche dal di dentro!) dànno l'impressione di rassegnazione, mancanza di gioia semplicemente di vivere o di vivere il proprio impegno religioso; comunità o individui -come dicevamo prima- amareggiati, scontrosi, delusi, tristi... Ci dice, invece, il documento:

 

"Non bisogna dimenticare infine che la pace e il gusto di stare insieme restano uno dei segni del Regno di Dio. La gioia di vivere pur in mezzo alle difficoltà del cammino umano e spirituale e alle noie quotidiane, fa parte già del Regno. Questa gioia è frutto dello Spirito e abbraccia la semplicità dell'esistenza e il tessuto monotono del quotidiano. Una fraternità senza gioia è una fraternità che si spegne. Ben presto i membri saranno tentati di cercare altrove ciò che non possono trovare a casa loro. Una fraternità ricca di gioia è un vero dono dell'Alto ai fratelli che sanno chiederlo e che sanno accettarsi impegnandosi nella vita fraterna con fiducia nell'azione dello Spirito. Si realizzano così le parole del salmo: “Ecco quanto è buono e quanto è soave che i fratelli vivano insieme... là il Signore dona la benedizione e la vita per sempre” (Sal 133, 1-3), “perché quando vivono insieme fraternamente, si riuniscono nell'assemblea della Chiesa, si sentono concordi nella carità e in un solo volere” (S. ILARIO, Tract. in Psal. 132, PLS 1, 244).

            Tale testimonianza di gioia costituisce una grandissima attrazione verso la vita religiosa, una fonte di nuove vocazioni e un sostegno alla perseveranza. E' molto importante coltivare questa gioia nella comunità religiosa: il superlavoro la può spegnare, lo zelo eccessivo per alcune cause la può far dimenticare, il continuo interrogarsi sulla propria identità e sul proprio futuro la può innebbiare.

            Ma il saper fare festa insieme, il concedersi momenti di distensione personali e comunitari, il prendere le distanze di quando in quando dal proprio lavoro, il gioire delle gioie del fratello, l'attenzione premurosa alle necessità dei fratelli e sorelle, l'impegno fiducioso nel lavoro apostolico, l'affrontare con misericordia le situazioni, l'andare incontro al domani con la speranza d'incontrare sempre e comunque il Signore: tutto ciò alimenta la serenità, la pace, la gioia. E diventa forza nell'azione apostolica.

            La gioia è una splendida testimonianza dell'evangelicità di una comunità religiosa, punto di arrivo di un cammino non privo di tribolazione, ma possibile perché sorretto dalla preghiera: “Lieti nella speranza, forti nella tribolazione, perseveranti nella preghiera” (Rm 12, 12)" (VFC 28).

 

            Certo, gioia e felicità non significano che sia necessario sorridere sempre (ci sono ottimismi scoraggianti!), né il chiasso di una allegria facile; ma, un ambiente di pace, di preghiera, di lavoro, di serenità e di accoglienza, di corresponsabilità, aiuto, comprensione e misericordia vicendevoli. Il religioso maturo che attraversa il portone di casa, stanco dal lavoro della giornata, preferisce l'accoglienza comprensiva e rasserenante dei suoi confratelli/consorelle, alla rumorosità artificiale e superficiale di "adolescenti di -anta anni". La felicità che tutti desideriamo è qualcosa di più profondo, che scaturisce dall'intimo della persona, dalla sua profonda soddisfazione per la vocazione a cui è liberamente fedele: "So a chi ho creduto!" (2Tm 1, 12), dalla disponibilità all'accoglienza, all'instancabile riconciliazione e all'apertura verso i fratelli, e non necessariamente dall'ambiente di continua festa.

 

            Del resto, noi siamo pienamente consapevoli che la vita fraterna non è sempre facile. Noi, infatti, non rendiamo testimonianza che sia facile; ma, che:

 

 "come fratelli e sorelle persone di differenti età, lingue e culture, si pongono come segno di un dialogo sempre possibile e di una comunione capace di armonizzare le diversità" (VC 51a).

 

Sappiamo bene che:

 

 "La “comunità ideale” perfetta non esiste ancora: la perfetta comunione dei santi è meta nella Gerusalemme celeste. Il nostro è il tempo dell'edificazione e della costruzione continua (...). La situazione di imperfezione delle comunità non deve scoraggiare..." (VFC 26).

 

La comunità resta sempre:

 

 "... una realtà conflittuale: la diversità di pareri, i diversi gradi di maturità vocazionale e psicologica, le esperienze passate, l'educazione differenziata costituiscono sempre motivo di conflitto. L'importante -per l'individuo e per il gruppo- non è l'assenza di conflitti, ma come essi vengono affrontati: è lì che si misura lo spirito evangelico"[1][26].

 

            Ricordiamo che sia Giuda che Pietro furono tentati; entrambi tradirono il Maestro e tutti e due si pentirono. Ma, mentre Giuda restò da solo e disperò fino al suicidio, Pietro invece ritornò alla comunità e si salvò e, dopo la risurrezione, Gesù lo confermò nel suo ministero a capo della comunità dei discepoli, nonostante il tradimento: "... Pasci le mie pecorelle" (Gv 21, 15-17). E la comunità dei discepoli ebbe la magnanimità di accoglierlo e perdonarlo: fu salvato dalla comunità, lui, il capo degli altri, il primo Papa, diventato un rinnegato..., ma pentito e fiducioso nel perdono di Cristo e nell'amore dei fratelli! Come l'incredulo Tommaso (Gv 20, 19-29) non raggiunse la fede nella risurrezione di Cristo perché era fuori dalla comunità; e ritrovò il Signore e la fede quando venne di nuovo dai fratelli. Come i due di Emmaus (Lc 24, 13-35), una volta ritrovato il Maestro, sentirono il bisogno di ritornare a Gerusalemme, dagli altri discepoli. Come Saulo (At 9, 1-20), il quale non seppe dal Signore sulla via di Damasco cosa doveva fare, ma gli fu detto dalla comunità: "Alzati ed entra nella città e ti sarà detto ciò che devi fare...". Colui che ci chiamò a seguirLo in comunità non ci concederà la perseveranza all'infuori dalla comunità!

 

            Ecco allora la dimensione apostolico-profetica della comunità nella società moderna in cui ci troviamo e della quale formiamo parte:

 

"La Chiesa tutta conta molto sulla testimonianza di comunità ricche “di gioia e di Spirito Santo” (At 13, 52). Essa desidera additare al mondo l'esempio di comunità nelle quali l'attenzione reciproca aiuta a superare la solitudine, la comunicazione spinge tutti a sentirsi corresponsabili, il perdono rimargina le ferite, rafforzando in ciascuno il proposito della comunione. In comunità di questo tipo, la natura del carisma dirige le energie, sostiene la fedeltà ed orienta il lavoro apostolico di tutti verso l'unica missione. Per presentare all'umanità di oggi il suo vero volto, la Chiesa ha urgente bisogno di simili comunità fraterne, le quali con la loro stessa esistenza costituiscono un contributo alla nuova evangelizzazione, poiché mostrano in modo concreto i frutti del “comandamento nuovo”" (VC 45b).

 

 

2.3- Curare e rafforzare la formazione e l'accompagnamento nella vita e nello svolgimento della missione o apostolato

           

            Abbiamo già accennato al bisogno nonché al diritto che ha ogni religioso in circostanze difficile di essere aiutato. Si ricordino i saggi consigli per risolvere le varie fasi di crisi e difficoltà (gioventù, età matura, anzianità), offerti dall'Esortazione VC 70, e che abbiamo citato nella prima parte di questa riflessione; rimandiamo a quei testi e a quei suggerimenti pratici. Aggiungiamo soltanto qualcosa.

 

            Le persone sono il bene più grande che abbiamo; senza di esse, tutte le programmazioni ed i progetti non sono che carta stampata. E le persone hanno (abbbiamo!) bisogno di tempo e di persone! In una società in preda alla rapidità e alla superficialità è diventata -per contrasto- più lenta e difficile la costruzione ed i consolidamento umano e spirituale delle persone. E' un prezzo assolutamente da pagare. Perciò, è grave quando, invece, vediamo dei giovani religiosi (e anche adulti) votati ad un'attività frenetica, che non lascia un momento di respiro; religiosi, e soprattutto religiose, che la mattina vanno all'Università, il pomeriggio lavorano in casa o nella scuola od ospedale, più tutti gli atti comunitari, e dopo cena debbono restare fino alle ore piccole, stanchi della giornata, per riuscire a leggere qualche cosa o a preparare gli esami... Li stiamo conducendo verso la stanchezza, l'esaurimento, e chi sa se in certi casi a non reggere più e ad andarsene. Ma, in quest'ultimo caso, di chi è la responsabilità?

 

            Anche gli adulti, però, hanno bisogno di sentire i fratelli vicini -come dicevamo poc'anzi-, fra l'altro per non cadere in un facile individualismo, in particolare nel mondo maschile.

 

            Per non parlare degli anziani che vedono ridursi giorno dopo giorno le loro energie e capacità di collaborazione attiva. La vicinanza e accompagnamento degli altri diventa un elemento umano e spirituale fondamentale, per sentirsi vivi, amati e, in fondo, per amare la Congregazione, la Chiesa ed il Regno ai quali hanno dato il meglio di se stessi lungo la vita.

 

            Ecco l'importanza di curare sia la formazione iniziale (VC 65), che comincia già nella pastorale vocazionale (VC 64), una formazione globale, nel senso di umana, culturale e spirituale, personale e comunitaria (VC 67), sia la formazione permanente (VC 69, 71); e, in modo particolare, la "formazione dei formatori" (VC 66)[1][27]. Per il futuro di una Provincia religiosa è in genere più importante il ruolo dei formatori che quello del Provinciale!

 

            Perciò diceva la VC in un testo che abbiamo già citato, ma che mi pare convenga riportare di nuovo qui:

 

"Quando la fedeltà si fa difficile, bisogna offrire alla persona il sostegno di una maggior fiducia e di un più intenso amore, sia a livello personale che comunitario,. E' necessaria allora, innanzitutto, la vicinanza afettuosa del Superiore; grande conforto verrà pure dall'aiuto qualificato di un fratello o di una sorella, la cui presenza premurosa e disponibile potrà condurre a riscoprire il senso dell'alleanza che Dio per prima ha stabilito e non intende smentire. La persona provata giungerà così ad accogliere purificazione e spogliamento come atti essenziali della sequela di Cristo crocifisso. La prova stessa apparirà come strumento provvidenziale di formazione nelle mani del Padre, come lotta non solo psicologica, condotta dall'io in rapporto a se stesso e alle sue debolezze, ma religiosa, segnata ogni giorno dalla presenza di Dio e dalla potenza della Croce!" (VC 70g). 

 

            Una vita di fede, di comunione e di accompagnamento che va fatta tutti insieme, giovani, adulti e anziani; perché così è la vita umana e, quindi, anche quella della esperienza consacrata[1][28]. Sapendo che i momenti della vita apparentemente infecondi, come quelli di stanchezza e di crisi, possono essere trasformati in momenti di grazia; a condizione di saper prendere in mano la propria vita e compiere un cammino di accettazione, di ascolto di sé e dei fratelli, e di fiducia, lasciando che in questo modo Dio operi in noi[1][29].

 

 




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