PARTE PRIMA.
Nei dieci mesi che volsero dalla pace
di Villafranca alla spedizione dei Mille, l'Italia di mezzo diede prove di
virtù civili meravigliose, ma col Piemonte corse dei pericoli gravi forse
quanto quelli che il Piemonte stesso aveva corsi, prima della guerra del 1859.
I duchi, gli arciduchi, i legati pontifici fuggiti dalle loro sedi, fin da
prima di quella guerra, non avevano più osato tornarvi; e allora Parma, Modena,
Bologna con la Romagna fino alla Cattolica, si strinsero in un solo Stato, che
nel bel ricordo della gran via romana da Piacenza a Rimini, chiamarono
l'Emilia. Spento così d'un tratto ogni vecchio sentimento di gelosia,
conferirono la Dittatura al Farini, romagnolo venuto su, da giovane, nelle
cospirazioni, e poi maturo ed esule fattosi alla vita dell'uomo di stato vicino
al Cavour, in Piemonte. Si crearono un esercito proprio, con gioventù propria e
d'ogni parte d'Italia; e il loro governo procedeva d'accordo con quello di
Toscana, libera anche essa, e col suo grande statista Bettino Ricasoli risoluta
d'unirsi al regno di Vittorio Emanuele. Intanto quelle regioni si chiamavano,
tutte insieme, Italia centrale.
Quello Stato provvisorio era
tranquillo come se non ci fosse in aria nessuna minaccia, ma senza mostrarne
paura, conosceva i pericoli tra i quali viveva. L'Austria, che non aveva potuto
aiutar con l'armi i principi fuggiti a tornare, dichiarava caso di guerra
l'ingresso anche d'un solo soldato piemontese nell'Italia centrale: la Russia
era apertamente ostile non soltanto a che Toscana e Ducati e Legazioni si
unissero al regno di Vittorio Emanuele, ma ancora a che si scegliessero un
Sovrano: la Prussia consigliava il Piemonte di rimetter esso stesso in trono i
principi fuggiti. I diplomatici italiani avevano un bel dire fin da allora ai
prussiani che la Germania mostrava desiderio di rompere i legami posti anche a
lei dai trattati del 1815: quegli uomini di Stato, sebbene sapessero che presto
la Germania avrebbe fatto ciò che già faceva l'Italia, insistevano perché il
Piemonte si contentasse della Lombardia, si consolidasse bene e lasciasse tempo
al tempo. In quanto a Napoleone III, questi diceva di non voler correre i
rischi di una nuova guerra che l'Austria avrebbe immancabilmente intrapresa se
fosse avvenuta l'annessione dell'Emilia e della Toscana al nuovo regno; ed
erano avversi all'Italia la Spagna, la Baviera, persino il Belgio.
Sola l'Inghilterra si mostrava
amica al nuovo Stato, che si veniva formando; sola suggeriva agli Italiani
dell'Emilia e della Toscana di stare saldi nella loro risoluzione. Al Piemonte
consigliava di fare, di osare senza domandare e di non darsi briga né
dell'Austria né della Francia, né di nessuno. E il Ricasoli e il Farini erano
uomini da sentir bene il consiglio, perché stavano al governo di popolazioni
che sapevano ragionare il loro diritto. Come s'erano formate le grandi potenze,
esse che mormoravano e minacciavano perché Piemontesi e Lombardi volevano
aiutare i loro fratelli del centro a divenir com'essi liberi, e tutti insieme
Italiani? L'Austria, la Francia, la Prussia, la Russia si erano costituite in
secoli di violenze e di usurpazioni, calpestando popoli, che due o tre di esse
ritenevano ancora con la forza; gli Italiani non conquistavano, non usurpavano
nulla; non abbattevano se non delle dinastie che loro erano state imposte. Ora
perché esse, le grandi potenze, volevano impedirli?
Si ragionava così, e così stavano
le cose nel principio del 1860, quando appunto Cavour, che dopo la pace di
Villafranca, sdegnato contro Napoleone e fin contro il Re, si era ritirato dal
governo, tornava alla presidenza dei Ministri. Egli allora osò da uomo che
sapeva di aver dei collaboratori potenti, e un popolo pronto a tutto. E
d'accordo con lui, il Ricasoli per la Toscana e il Farini per l'Emilia,
pubblicarono il Decreto che convocava i Comizi, in tutta l'Italia centrale, pel
plebiscito. In quei Comizi, i votanti dovevano dichiarare se volessero l'unione
alla Monarchia costituzionale di Vittorio Emanuele, ovvero il regno separato. E
nell'Emilia su 2,916,104 abitanti, comprese donne e fanciulli, 426,006 voti furono
per l'unione; contrari, solo 756. Nella Toscana, su 1,806,940 abitanti votarono
per l'unione 366,871, pel regno separato 54,925. Così l'Europa, che tante
sciagure aveva versate o lasciato versare sull'Italia, da secoli, vide
meravigliata Emiliani e Toscani concordi ed entusiasti fondersi con Piemontesi
e Lombardi; e i duchi e gli arciduchi - parole di Cavour - «sepolti in perpetuo
sotto il cumulo di schede deposte nelle urne.»
Protestarono i principi che
vedevano levati via per sempre i pretesi loro diritti; protestò l'Austria,
protestò quasi tutta l'Europa, ma nessuno si mosse: e un regno dell'Alta
Italia, di undici milioni, fu fatto.
*
Allora, anche a uomini molto
arditi, parve di aver avuto tanta fortuna, che pensare ad altro sembrava
temerità e follia. L'Europa poteva, alla fine, saltar su e dire di aver
tollerato anche troppo. Infatti mostrò ancora il suo broncio il 2 aprile, nella
seduta inaugurale del nuovo Parlamento in Torino; nella qual seduta, con
manifesta avversione, non si fecero vedere i rappresentanti diplomatici di
Russia, Prussia, Spagna e del Belgio. E se i limiti del nuovo regno fossero
stati segnati dalla valle del Po, forse il Governo avrebbe potuto facilmente
persuadere lo spirito pubblico a mantenersi cheto per alcuni anni, aspettando e
preparando altri eventi. Ma i confini erano già di là dall'Appennino; e aver a
far parte del regno la Toscana, la gran maestra antica della vita civile
italiana, voleva dire esser costretti a continuare l'impresa nazionale.
Napoleone III lo aveva ben capito, e di malumore aveva già detto ad un suo
ministro che l'unione della Toscana al regno di Vittorio Emanuele portava di
conseguenza l'unità italiana. Però al Conte di Cavour l'unità non pareva ancora
possibile. L'idea sua era sempre di dar assetto al nuovo regno; promuoversi
tutte le libertà; svolgerne le forze già così rigogliose e omogenee; farlo
ricco, colto, solcarlo di strade ferrate e di canali; dotarlo di ogni sorta di
opere pubbliche; farne insomma il Belgio in grande dell'Europa meridionale.
Così, intanto gli Italiani dello Stato Pontificio e delle Due Sicilie,
avrebbero sentito e desiderato la prosperità dello Stato settentrionale anche
per sé; e forse, prima che passasse un decennio, si sarebbero mossi
spontaneamente per unirsi a goderla. Egli aveva allora appena cinquant'anni, e
poteva ripromettersi di vivere ancora tanto da guidare quel movimento.
Senonché Mazzini sin dal 2 marzo
aveva scritto: «Non si tratta più di repubblica o di monarchia, si tratta di
unità nazionale; d'essere o non essere. Se l'Italia vuole essere monarchica
sotto la Casa di Savoia, sia pure: se dopo la riscossa vuol acclamare
liberatori e non so che altro il Re e Cavour, sia pure. Ciò che ora vogliamo è
che l'Italia si faccia.» Il gesto era preciso, diritto; Sicilia, Napoli, Roma
tutto doveva venire nell'unità nazionale: per Mazzini, pel suo partito, che era
anche fatto di uomini di guerra, l'ora era buona; o coglierla, quali che si
fossero i pericoli, o non vederla tornar mai più. Egli fin dal 1856 aveva
rivolta la sua azione al Mezzodì per far procedere di laggiù in su la
propaganda rivoluzionaria: nel '57, per tentarvi una rivoluzione, d'intesa con
lui era andato a morir colà Pisacane: nel '59, temendo che la pace di
Villafranca e le sue conseguenze portassero a far guarentire dall'Europa
l'intangibilità delle Due Sicilie, egli Mazzini, aveva mandato Crispi in
Sicilia a promuovervi agitazioni e a prepararvi l'insurrezione. Ora dunque
bisognava gettare il dado, e cominciare appunto dalla Sicilia.
*
Certo la convinzione di Mazzini
l'aveva in parte, almeno nel cuore, anche il Cavour. Egli dopo Villafranca, in
uno scatto di magnanima ira, aveva detto: «Mi hanno troncato la via a fare
l'Italia con la diplomazia dal Nord; ebbene, la farò dal Sud con la
rivoluzione!» Ma poi si era frenato. E se Mazzini vedeva le cose da credente
che subordinava tutto alla propria fede, e andava incontro ai fatti, fosse pure
per trovare il martirio, Cavour col suo tatto del possibile guardava da uomo di
Stato che misura le probabilità e vi conforma l'azione. Il regno delle Due
Sicilie gli pareva un organismo da lasciar vivere ancora; le idee sue rispetto
a quello non si erano peranche mutate.
L'anno avanti, nel maggio, appena
salito al trono Francesco II, egli lo aveva invitato a unirsi al Piemonte
contro l'Austria. Ma Francesco aveva preferito la neutralità, sperando che
Russia, Prussia, Inghilterra si sarebbero messe dalla parte dell'Austria, e che
la guerra del '59 sarebbe finita come quella del '48. Cavour il 25 giugno, cioè
dopo la battaglia di Solferino e San Martino, sempre sperando di convincere
quel Re a divenir italiano, gli aveva mandato il conte Ruggero Gabaleone di
Salmour come inviato straordinario, con l'istruzione di dirgli che il concetto
dell'indipendenza italiana aveva informato sempre il Governo piemontese; che
perciò da anni, consigliando con l'esempio e con la voce agli altri principi
d'Italia quelle interne riforme che dessero soddisfazione ai legittimi
desiderii dei popoli, aveva mirato soprattutto a consociarli nello stesso
intento di nazionalità, unico mezzo per disarmare le fazioni. Quel diplomatico
doveva ricordare al Re avere il Piemonte ammonito sempre che, seguendo altra
via, i governi avrebbero dovuto combattere non più le sette, ma il sentimento
universale della nazione, e che nella funesta lotta non essi sarebbero stati
vincitori. L'inviato doveva anche dire che mentre la guerra era guerreggiata in
Lombardia, l'ostinata neutralità del re di Napoli sarebbe considerata come una
diserzione o un segreto patteggiamento coll'inimico. In quanto alle Due
Sicilie, poi, doveva dire essere noto che colà più che altrove fremevano
passioni ardenti, rancori profondi, ire lungamente compresse che aspettavano
ansiosamente l'occasione di prorompere terribili e irrefrenate: che le occasioni
non tarderebbero, e con esse gli incitamenti e le seduzioni entro e fuori del
regno: che confidare nella sola forza, far puntello al trono d'armi mercenarie,
era partito che non solamente doveva ripugnare all'animo onesto del giovane Re,
a partito mal sicuro e pieno di pericoli. Pensasse il Re che la presenza di un
esercito francese in Italia doveva commuovere il paese dove aveva regnato
Gioachino Murat; e dove era morto compianto: ci pensasse, e collegandosi
sinceramente col Piemonte, dichiarasse pronta guerra all'Austria e mandasse
parte dell'esercito sul Po e sull'Adige, a combattere a fianco di Vittorio
Emanuele e di Napoleone. L'inviato doveva anche pregare il Re di far vuotare le
carceri politiche, di riaprire le vie del ritorno ai proscritti, di sanar le
piaghe della Sicilia; ma su questo e su tutto il resto aveva trovato sordi i
cuori.
Tuttavia Cavour non si era
stancato. Al principio del 1860, appena tornato al governo, quando temeva
ancora l'intervento dell'Austria nell'Italia centrale, aveva ritentato di
condurre il re di Napoli ad allearsi col nuovo regno di Vittorio Emanuele. Ma
Francesco II e il suo governo si erano messi invece a cospirargli contro,
istigati dal Nunzio Pontificio, dalla Spagna, dalla regina Sofia di Baviera
stessa sposa del Re, fantasticanti tutti insieme una lega cattolica. E
assoldavano austriaci per Napoli e pel Papa, concentravano soldati negli
Abruzzi, miravano a suscitar tumulti nella Romagna.
Allora Cavour cambiò tono, e fece
avvertire badassero bene a non far mettere piede di soldato borbonico nel
pontificio. Essi, cocciuti, non ascoltavano consigli neppur dall'Inghilterra.
La quale alla fine diceva loro tirannia, ingiustizia, oppressione essere le
caratteristiche del governo dell'Italia meridionale; quelle dell'Italia
settentrionale, libertà e giustizia; e che in tutti i paesi del mondo, la gente
anche la più volgare capiva la differenza esistente tra un governo giusto e
umano e un governo ingiusto e spietato. Ostinato ognor più, non ascoltavano
nemmeno la Russia loro amicissima, che per bocca del suo primo Ministro diceva
a Napoli che la polizia del Regno, spiaceva fino al capo della polizia russa; e
questi era allora Kakoskine, uomo addirittura feroce. Anche la Francia consigliava
invano minori asprezze.
Pareva tempo da non usar più
nessun riguardo, ma forse il giovane Re ispirava ancora a Vittorio Emanuele una
certa pietà: Era figlio di Maria Cristina di Savoia, sposata nel 1832 al
grossolano e cattivo Ferdinando II, trattata male nella reggia e morta consunta
nel 1836. Essa aveva avuto quell'unico figlio. E si sapeva che quando era nato,
non volendo concedere a lei di allattarlo, le avevano fatto entrare in camera
per nutrice una donna di Santa Lucia, piagata a una gamba, con le tracce della
scrofola al collo, con pochi capelli in testa, quasi tignosa e con figli
rachitici o che non si reggevano in piedi. Aveva rivelate queste miserie un
abate Terzi, che Maria Cristina aveva condotto con sé dal Piemonte per
confessore. E l'abate aveva anche narrato che vicina a morte, avendo chiamato
il Re, la infelice regina s'era sentita rispondere che il Re dormiva. Così era
spirata soletta come una povera, con al capezzale un oscuro frate; e il popolo
napoletano l'aveva chiamata santa.
Per disgrazia sua, quel povero
bambino, orfano di madre, mal visto erede al trono, non aveva potuto morire
anch'esso, era stato educato a odiare ogni cosa italiana. Ed ora regnava. Se
Vittorio Emanuele aveva voluto che il suo Governo usasse dei riguardi a quel
parente nato e vissuto infelice, come uomo di cuore aveva fatto bene.
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